Interiorità, un valore in crisi
La «vita interiore» che un tempo era quasi sinonimo di vita spirituale, ora tende invece a essere guardata con sospetto. Non conosciamo più i significati di «interiorità» e «raccoglimento». Tra i teologi c’è chi afferma che non c’è nessun termine biblico che corrisponda esattamente a queste parole; che potrebbe esserci stato, su questo punto, un influsso determinante della filosofia platonica; che esso potrebbe favorire il soggettivismo… Un sintomo rivelatore di questo calo del gusto e della stima dell’interiorità è la sorte toccata all’Imitazione di Cristo che è una specie di manuale di introduzione alla vita interiore. Da libro più amato tra i cristiani, dopo la Bibbia esso è passato, in pochi decenni, a essere uno dei libri meno amati e meno letti.
Alcune cause di questa crisi sono antiche e inerenti alla nostra stessa natura. La nostra «composizione», cioè l’essere noi costituiti di carne e spirito, fa sì che siamo come un piano inclinato, inclinato però verso l’esterno, il visibile e il molteplice. «Non si sazia l’occhio di guardare, né mai l’orecchio è sazio di udire», dice la Scrittura (Qo 1,8). Siamo perennemente proiettati verso le cinque porte o finestre che sono i nostri sensi. Altre cause sono invece più specifiche e attuali. Una è l’emergenza del «sociale» che è certamente un valore positivo, dei nostri tempi, ma che, se non è riequilibrato, può accentuare la proiezione all’esterno e la spersonalizzazione dell’uomo. Nella cultura secolarizzata e laica dei nostri tempi il ruolo che svolgeva l’interiorità cristiana è stato assunto dalla psicologia e dalla psicoanalisi, le quali si fermano però all’inconscio dell’uomo e comunque alla sua soggettività, prescindendo dal suo intimo legame con Dio (I^ parte).