Interiorità, un valore in crisi (4)
C’è un’espressione dialettale significativa per dire che due persone sono fidanzate: «si parlano», o, «il tale parla alla tal’altra». È un modo molto plastico di dire la rilevanza che ha la parola nello stabilire e nel far crescere una relazione. Sarebbe però un errore credere che per vivere in relazione basti «parlare». Aelredo di Rievaulx arriva a dire che non dovrebbe essere scelto come amico «il tipo troppo loquace» (Amicizia spirituale 3,30). In effetti, come la musica ha bisogno di pause e una poesia di spazi bianchi, così la comunicazione si nutre anche di silenzio. Perché, come la troppa luce oscura la visione delle stelle, così l’eccesso di parole può creare un inquinamento verbale, che impedisce di dare alle parole stesse il giusto peso. Per questo le regole monastiche, riservano uno spazio rilevante al silenzio, che è un negare la parola come condizione preliminare per curare l’ascolto: di Dio, di se stessi, degli altri.
Ad esempio la Regola benedettina vede nel silenzio sostanzialmente due pregi: in negativo è una maniera di evitare parole inutili o cattive, in positivo è una qualità tipica del «discepolo», cui conviene «il tacere e l’ascoltare». Si può essere indotti a pensare che il silenzio cui sono chiamati i monaci sia di fatto la forma esterna che traduce il cardine stesso della scelta monastica, cioè la fuga dal mondo e la rottura delle comunicazioni. Se fosse così, che cosa potrebbero dirci tali regole sulla vita di relazione? Credo però che bisognerebbe anzitutto intendersi su che cosa significhi questa «fuga dal mondo», se è davvero una «fuga», e nel caso, da «quale» mondo. Anche la parola può essere un meccanismo che ci distrae dalla realtà, mentre il silenzio può essere una strada per entrarci meglio e con più consapevolezza.