RIFLESSIONE DEL PARROCO

S.E. MONS. PIETRO BROLLO È SALITO AL CIELO

Il nostro Arcivescovo emerito della Diocesi di Udine è spirato giovedì 4 al mattino. I funerali sono stati celebrati sabato 7 dicembre alle 14.30 in Cattedrale a Udine, dove la salma ora riposa nella Cripta delle tombe degli arcivescovi.
Perdere un vescovo; perdere un Padre.
Il vescovo di una diocesi non è un funzionario amministrativo, semmai è il padre nella fede di una Comunità diocesana. Perderlo, significa perdere un padre che ti ha guidato nella fede, nella speranza e nella carità; ti ha aiutato ad essere una Chiesa unita e in cammino; e nel mio caso, è un padre che ti ha affidato il suo Seminario perché tu formassi i suoi preti. Anche se mons. Pietro Brollo era “emerito”, cioè non era più direttamente la guida della nostra Arcidiocesi, per noi resta sempre un padre.
La morte di questo uomo amabile e amato, non è una sconfitta della vita. Al contrario, ne è la pienezza. La sua morte è una vittoria, perché chi muore in Cristo Gesù partecipa di tutta la sua opera di redenzione. Essa, in senso definitivo, è esperienza di risurrezione. Mons. Brollo ha preso sul serio l’invito di Gesù nel tempo dell’Avvento: “Vieni Signore Gesù”. E Gesù è venuto, lo ha caricato sulle sue spalle, ed ora lo abbraccia nella pace eterna.  dD

RIFLESSIONE DEL PARROCO

DOMENICA 24 NOVEMBRE, «GIORNATA DEL SEMINARIO»

Sono 34 i giovani che nel Seminario interdiocesano di Castellerio si stanno preparando al sacerdozio, in un momento, per altro, molto importante nella vita della Chiesa friulana. La «Giornata del Seminario» – che si celebra domenica 24 novembre – vuole essere un momento corale di preghiera per accompagnare questo importante percorso. «I giovani seminaristi – spiega il rettore, don Loris Della Pietra – sentono il bisogno della vicinanza di tutta la comunità diocesana e ne attendono l’incoraggiamento. La Giornata del Seminario, oltre ad essere momento di preghiera e di offerta, diventa occasione per ravvivare l’attenzione a questa componente preziosa della vita delle nostre Chiese per sentire il cammino di questi giovani come dono e responsabilità di tutti».
«Siamo tutti chiamati – prosegue il rettore – ad operare con la preghiera, l’esempio e il consiglio perché in questi giovani non venga dimenticato il “primo amore” sotto la coltre delle fatiche pastorali e degli interessi di parte. Ed è quanto mai importante pregare per loro affinché non fuggano dalla storia, dalla vita, dalle persone e dalle loro domande, lasciando da parte la pretesa di dare risposte preconfezionate, facendo strada con loro e annunciando la speranza che non può morire, donandosi senza calcoli e con passione.»

RIFLESSIONE DEL PARROCO

Siamo peccatori sulla strada della santità…”
Noi siamo la Chiesa, che noi cristiani proclamiamo come “Una e Santa” pregando il Credo. Una, perché ha la sua origine in Dio Trinità, mistero di unità e di comunione piena. Santa, perché fondata su Gesù Cristo, animata dal suo Santo Spirito, ricolmata del suo amore e della sua salvezza. Santa, anche se composta da peccatori, che ogni giorno fanno esperienza delle proprie fragilità e delle proprie miserie.
Unità e santità non sono infatti virtù umane, esse “provengono da Dio”: Gesù Cristo è la fonte della nostra unità e santità, e se noi non siamo uniti, se non siamo santi, è perché non siamo fedeli a Lui. Ma seppur infedeli, Cristo tuttavia non ci lascia soli, non abbandona la sua Chiesa! Lui cammina con noi, Lui conosce le nostre fragilità. Capisce le nostre debolezze, i nostri peccati, ci perdona, purché noi ci lasciamo perdonare. Ma Lui è sempre con noi, aiutandoci a diventare meno peccatori, più santi, più uniti.
Lo dimostra la preghiera incessante di Gesù al Padre per l’unità dei suoi discepoli, soprattutto nell’imminenza della Passione, quando stava per offrire tutta la sua vita per noi, come racconta una delle pagine più intense e commoventi del Vangelo di Giovanni, il capitolo 17. Com’è bello sapere che il Signore, prima di morire, non si è preoccupato di sé stesso, ma ha pensato a noi, all’unità dei suoi discepoli! Gesù, nel suo dialogo col Padre, ha pregato proprio perché possiamo essere una cosa sola con Lui e tra di noi.
Egli si fa nostro intercessore presso il Padre, affinché l’unità possa diventare sempre di più la nota distintiva delle nostre comunità cristiane, e al contempo la risposta più bella a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (segue).  dD

RIFLESSIONE DEL PARROCO

Si avvicina la Solennità di Tutti i Santi (1° novembre), in cui contempliamo i testimoni della fede e dell’amore, che ora godono della gioia celeste nella visione e nell’abbraccio definitivo di Dio: il Paradiso. Guardare ai Santi ci aiuta e ci fa sentire bene e parte della “Comunione dei Santi”, uno dei punti fermi della nostra fede cattolica. In comunione con i Santi, testimoni di Gesù, per i cui meriti noi pellegrini sulla terra, possiamo chiedere Loro un aiuto, un’intercessione, una mano per vivere oggi da cristiani, e domani godere come loro del Paradiso.
Aiutiamo i nostri figli a prepararsi bene a questa festa cristiana, senza trasformarla in un’ennesima carnevalata commerciale, per gente sempre più vuota come le zucche, inaridita dal nulla, senza senso e senza perché.
Viviamo bene anche i giorni per il ricordo dei nostri morti. In particolare, il 2 novembre e i giorni successivi fino all’8 novembre (Ottavario). Preghiamo per i morti e partecipiamo alle S. Messe per i defunti; non accontentiamoci di fiori e lumini, ma riempiamo di fede e di speranza cristiana le nostre visite ai cimiteri dei nostri paesi.
Nei cimiteri a tutti, raccomando devozione, silenzio e rispetto. Non sono dei parchi commerciali, ma luogo di dolore e di pace…        dD

 

RIFLESSIONE DEL PARROCO

Interiorità in crisi (11)
Si parla tan­to oggi di autenticità e se ne fa il criterio di riuscita o me­no della vita. Ma dov’è, per il cristiano, l’autenticità? L’interiorità è la via ad una vita autentica. Quand’è che un giovane è veramente sé stesso? Solo quando accoglie come misura, Dio. «Un mandriano il quale, se questo fosse possibile, è un io di fronte alle vac­che, è un io molto basso; un sovrano che è un io di fron­te ai suoi servi, lo stesso. Nessuno dei due è un io; in am­bedue i casi manca la misura… Ma che realtà infinita acquista l’io, acquistando coscienza di esistere davanti a Dio, diventando un io umano, la cui misura è Dio!» (S. Kierkegaard, La malattia Morale). «Si parla tanto ‑ scrive il filosofo ‑ di vite sprecate. Ma sprecata è soltanto la vita di quell’uomo che mai si rese conto, nel senso più profondo, che esiste un Dio e che egli, pro­prio egli, il suo io, sta davanti a questo Dio». Chi non è davanti a Dio è veramen­te nella solitudine! Alla luce di queste parole di S. Kierkegaard è importante che i giovani, non si accontentino di essere solo dei «mandria­ni», ma aspirino a diventare «un io che esiste davanti a Dio!».
Il Vangelo ci narra la storia di un giovane «mandria­no» che un giorno ebbe il coraggio di cambiare. Era fug­gito dalla casa paterna e aveva dissipato i suoi beni e là «rientrò in se stesso». Passò in rassegna la sua vita, prepa­rò le parole da dire e si mise in cammino verso la casa paterna (cf Lc 15, 17). La sua conversione si attuò in questo momento, prima di muoversi, mentre era solo in mezzo a una mandria di porci. Si attuò nel momento in cui «rientrò in se stesso». La conversione esterna fu preceduta da quella interiore e ricevet­te da questa il suo valore. Quanta fecondità in quel «rientrare in sé stesso!». Non so se sant’Agostino avesse in mente queste parole del Vangelo, quando lanciava l’invito: «Rientra in te stesso!», ma certo il figliol prodi­go aveva messo in pratica quel grido, prima che il santo lo teorizzasse.   dD

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Interiorità in crisi (9)
Come spesso, quando va in crisi un valore spirituale o di fede, ne resta in piedi il simulacro che è l’equivalente secolare di quello stesso valore. L’equivalente secolare, naturale o laicista, dell’interiorità si chiama oggi, in psicologia, introspezione e in altri campi, concentrazione. Gli atleti e tutti quelli che si accingono a qualche impresa che richiede tutte le energie, conoscono l’importanza della concentrazione. Abbiamo presente alla mente immagini di atleti tutti raccolti in sé stessi, pronti a lanciarsi verso la meta, come se dovessero mettersi in contatto con una fonte misteriosa di energia che è dentro di loro. Lo stesso fa l’artista, il direttore d’orchestra. Non c’è nulla che nuoccia tanto a un atleta o a un artista, quanto l’essere «deconcentrato» ed è a ciò che viene attribuito volentieri l’eventuale insuccesso. È una pallida idea di quello che avviene nel campo dello spirito e della fede cristiana, dell’importanza della contemplazione e del raccoglimento del cuore, della coscienza, da cui deve scaturire l’azione.
Se vogliamo dunque imitare ciò che ha fatto Dio, imitiamolo davvero fino in fondo. È vero che egli si è svuotato, è uscito da sé, dall’interiorità divina trinitaria, per venire nel mondo. Ma sappiamo come ciò è avvenuto. «Ciò che era rimase, ciò che non era lo assunse», dicono gli antichi padri a proposito dell’incarnazione. Senza abbandonare il seno del Padre, il Verbo venne in mezzo a noi. Egli era «tutto in se stesso e tutto in noi» (san Leone Magno). Anche noi andiamo pure verso il mondo, ma senza uscire mai del tutto da noi stessi.    dD

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Interiorità in crisi (7)
Dissipazione è il nome della malattia mortale che ci insidia tutti. Si finisce per essere come un vestito rovesciato, con l’anima esposta ai quattro venti. In un discorso tenuto ai superiori di un ordine religioso contemplativo, Paolo VI dis­se: «Oggi siamo in un mondo che sembra alle prese con una febbre che si infiltra perfino nel santuario e nella solitudine. Rumore e frastuono hanno invaso pressoché ogni cosa. Le persone non riescono più a raccogliersi. In preda a mille distrazioni, esse dissipano abitualmente le loro energie dietro le diverse forme della cultura moder­na. Giornali, riviste, libri invadono l’intimità delle no­stre case e dei nostri cuori. E più difficile di un tempo trovare l’opportunità per quel raccoglimento nel quale l’anima riesce a essere pienamente occupata in Dio». L’esatta antitesi si chiama proprio dissipazione o evasione, cioè il riversarsi al­l’esterno. Santa Teresa d’Avila ha scritto un’opera intito­lata Il castello interiore che è certamente uno dei frutti più maturi della dottrina cristiana dell’interiorità. Ma esiste, ahimè, anche un «castello esteriore» e oggi con­statiamo che è possibile essere chiusi anche in questo castello. Chiusi fuori casa, incapaci di rientrarvi. Prigio­nieri dell’esteriorità! Sant’Agostino descrive così la sua vita prima della conversione: «Tu eri dentro di me ed io stavo fuori e ti cercavo quaggiù, gettandomi deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero neppure se non fosse per te che le fai esistere» (Confessioni X, 27). Quanti dovrebbe­ro ripetere questa amara confessione: Tu eri dentro di me, ma io ero fuori!
Vi sono alcuni che sognano la solitudine, ma la so­gnano soltanto. La amano, purché resti nel sogno e non si traduca mai nella realtà. Nella realtà, rifuggono da es­sa, ne hanno paura. La scomparsa del silenzio è un sin­tomo grave. O si ritrova un clima e dei tempi di silenzio e d’interio­rità o è lo svuotamento spirituale progressivo e totale. Gesù chiama l’inferno «le tenebre esteriori» (cf Mt 8, 12) e questa designazione è altamente significativa.

 

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Interiorità in crisi (6)
Perché è urgente tornare a parlare di interiorità e riscoprire anzi il gusto di essa? Viviamo in una civiltà tutta proiettata all’esterno, fuori. L’uomo invia le sue sonde fino alla periferia del sistema solare, ma ignora il più delle volte quello che c’è nel suo stesso cuore. Evadere, cioè uscire fuori, è una specie di parola d’ordine. Esiste perfino una letteratura di evasione, spettacoli di evasione. Una evasione istituzionalizzata. Al contrario, parole che indicano una conversione all’interiorità, come introversione, hanno acquistato un senso tendenzialmente negativo. L’introverso è visto come un ripiegato su sé stesso. Il silenzio fa paura. Non si riesce a vivere, lavorare, studiare senza qualche voce o musica intorno. C’è una specie di paura del vuoto, che spinge a stordirsi. Mai soli, è la parola d’ordine. Si coltiva il chiasso, il rumore assordante. Lo scopo: «Per non pensare!». Ma a quali manipolazioni sono esposti i giovani che hanno rinunciato ormai a pensare?
«Pesi il lavoro su questi uomini e vi si trovino impegnati, così che non diano retta alle parole di Mosè», fu l’ordine del Faraone d’Egitto (Cf Es 5, 9). Un ordine tacito, ma non meno perentorio, dei faraoni moderni è: «Pesi il chiasso su questi giovani, ne siano storditi, cosicché non pensino, non facciano delle scelte libere, ma seguano la moda che fa comodo a noi, comprino quello che diciamo noi, pensino come vogliamo noi!». Per un settore molto influente della nostra società, quello dello spettacolo e della pubblicità, gli individui contano solo in quanto sono «spettatori», numeri che fanno salire la «audience» dei programmi. Occorre opporsi a questo svuotamento.
I giovani sono anche i più generosi e pronti a ribellarsi alle schiavitù e infatti vi sono schiere di giovani che reagiscono a questo assalto e, anziché fuggire, ricercano luoghi e tempi di silenzio, contemplazione per ritrovare ogni tanto se stessi e, in se stessi, Dio. Giovani che hanno scoperto la differenza che c’è tra essere semplicemente «spettatori» e essere invece contemplativi. Essi hanno superato, all’indietro, il «muro del suono», questa terribile barriera tra sé e Dio.

 

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Interiorità, un valore in crisi (4)

C’è un’espressione dialettale significativa per dire che due persone sono fidanzate: «si parlano», o, «il tale parla alla tal’altra». È un modo molto plastico di dire la rilevanza che ha la parola nello stabilire e nel far crescere una relazione. Sarebbe però un errore credere che per vivere in relazione basti «parlare». Aelredo di Rievaulx arriva a dire che non dovrebbe essere scelto come amico «il tipo troppo loquace» (Amicizia spirituale 3,30). In effetti, come la musica ha bisogno di pause e una poesia di spazi bianchi, così la comunicazione si nutre anche di silenzio. Perché, come la troppa luce oscura la visione delle stelle, così l’eccesso di parole può creare un inquinamento verbale, che impedisce di dare alle parole stesse il giusto peso. Per questo le regole monastiche, riservano uno spazio rilevante al silenzio, che è un negare la parola come condizione preliminare per curare l’ascolto: di Dio, di se stessi, degli altri.
Ad esempio la Regola benedettina vede nel silenzio sostanzialmente due pregi: in negativo è una maniera di evitare parole inutili o cattive, in positivo è una qualità tipica del «discepolo», cui conviene «il tacere e l’ascoltare». Si può essere indotti a pensare che il silenzio cui sono chiamati i monaci sia di fatto la forma esterna che traduce il cardine stesso della scelta monastica, cioè la fuga dal mondo e la rottura delle comunicazioni. Se fosse così, che cosa potrebbero dirci tali regole sulla vita di relazione? Credo però che bisognerebbe anzitutto intendersi su che cosa significhi questa «fuga dal mondo», se è davvero una «fuga», e nel caso, da «quale» mondo. Anche la parola può essere un meccanismo che ci distrae dalla realtà, mentre il silenzio può essere una strada per entrarci meglio e con più consapevolezza.

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Interiorità, un valore in crisi (3)

Gesù spesso spinge a riflettere sull’interiorità perché quello che si ha all’esterno è esposto al pericolo quasi inevitabile dell’ipocrisia. Lo sguardo di altre persone ha il potere di far deviare la nostra intenzione, come certi campi magnetici fanno deviare le onde. L’azione perde la sua autenticità e la sua ricompensa. L’apparire pren­de il sopravvento sull’essere. Per questo Gesù invita a fare l’elemosina di nascosto, a pregare il Padre «nel se­greto» (cf Mt 6, 14). È vero che non siamo ancora all’i­dea dell’interiorità segreta, o della coscienza dell’uomo, ma siamo certamente su questa linea. Sant’Ambrogio non ha dunque del tutto torto quando, spiegando il te­sto dove Gesù invita a entrare nella propria stanza e a chiudere la porta per pregare il Padre, commenta: «Non pensare che questa stanza, sia solo la stanza circondata da pareti, essa è anche la stanza che è in te stesso nella quale sono racchiusi i tuoi pensieri e in cui dimorano i tuoi affetti» (De Cain et Abel 1, 9).
Il richiamo all’interiorità trova infine la sua motiva­zione biblica più profonda e oggettiva nella dottrina della inabitazione di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, nell’anima, dottrina sviluppata sia da San Paolo sia dall’evangelista San Giovanni (Gv 14, 17.23; Rom 5, 5; Gal 4, 6). Su questo sfondo evangelico si colloca l’idea dell’«uomo interiore» o dell’«uomo nascosto nel cuore» che si legge talvolta nel Nuovo Testamento (cf Rom 7, 22; 2 Cor 4, 16; 1 Pt 3, 4).
I Padri hanno continuato nella linea del discorso di Paolo ad Atene: «Quello che voi avete intravisto e cercato quasi a tentoni, noi ve lo annunciamo come già realiz­zato» (cf At 17, 23). La novità più grande è questa: rientrando in se stesso, l’uomo trova Dio, e non un Dio generico, impersonale, ma il Dio ri­velato in Cristo. Non trova solo il proprio spirito, ma lo Spirito Santo! «Non uscire fuori, ritorna in te stesso esorta sant’Agostino ‑: nell’uomo interiorità» abita la verità (De vera relig. 39, 72). Ma abbiamo già sentito chi è per lui questa «ve­rità» nel testo riportato sopra dove diceva: «Nell’inte­riorità dell’uomo abita Cristo».