XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Fiducia nel tanto di Dio
La scena descritta dal Vangelo della liturgia odierna si svolge all’interno del Tempio di Gerusalemme. Gesù guarda, guarda ciò che succede in questo luogo, il più sacro di tutti, e vede come gli scribi amino passeggiare per essere notati, salutati, riveriti, e per avere posti d’onore. E Gesù aggiunge che «divorano le case delle vedove e pre­gano a lungo per farsi vedere» (Mc 12,40). Nello stesso tempo, i suoi occhi scorgono un’altra scena: una povera vedova, proprio una di quelle sfruttate dai potenti, getta nel tesoro del Tempio «tutto quanto aveva per vivere» (v. 44). Così dice il Vangelo, getta nel tesoro tutto quanto aveva per vivere. Il Vangelo ci mette davanti questo stridente contrasto: i ricchi, che danno il superfluo per farsi vedere, e una povera donna che, senza apparire, offre tutto il poco che ha. Due simboli di atteggiamenti umani.
Gesù guarda le due scene. Ed è proprio questo verbo — “guardare” — che riassume il suo insegnamento: da chi vive la fede con doppiezza, come quegli scribi, “dobbiamo guardarci” per non diventare come loro; mentre la vedova dobbiamo “guardarla” per prenderla come modello. Guardarsi dagli ipocriti e guardare alla povera vedova. Anzitutto, guardarsi dagli ipocriti, cioè stare attenti a non basare la vita sul culto dell’apparenza, dell’esteriorità, sulla cura esagerata della propria immagine. E, soprattutto, stare attenti a non piegare la fede ai nostri interessi. Quegli scribi coprivano, con il nome di Dio, la propria vanagloria e, ancora peggio, usavano la religione per curare i loro affari, abusando della loro autorità e sfruttando i poveri. Qui vediamo quell’atteggiamento così brutto che anche oggi vediamo in tanti posti, in tanti luoghi, il clericalismo, questo essere sopra gli umili, sfruttarli, “bastonarli”, sentirsi perfetti. Questo è il male del clericalismo. È un monito per ogni tempo e per tutti, Chiesa e società: mai approfittare del proprio ruolo per schiacciare gli altri, mai guadagnare sulla pelle dei più deboli! E vigilare, per non cadere nella vanità, perché non ci succeda di fissarci sulle apparenze, perdendo la sostanza e vivendo nella superficialità. Chiediamoci, ci aiuterà: in quello che diciamo e facciamo, desideriamo essere apprezzati e gratificati oppure rendere un servizio a Dio e al prossimo, specialmente ai più deboli? Vigiliamo sulle falsità del cuore, sull’ipocrisia, che è una pericolosa malattia dell’anima! È un pensare doppio, un giudicare doppio, come dice la stessa parola: “giudicare sotto”, apparire in un modo e “poi”, sotto, avere un altro pensiero.
E per guarire da questa malattia, Gesù ci invita a guardare alla povera vedova. Il Signore denuncia lo sfruttamento verso questa donna che, per fare l’offerta, deve tornare a casa priva persino del poco che ha per vivere. Quanto è importante liberare il sacro dai legami con il denaro! Già Gesù lo aveva detto, in un altro posto: non si può servire due padroni. O tu servi Dio o il denaro. È un padrone, e Gesù dice che non dobbiamo servirlo. Ma, allo stesso tempo, Gesù loda il fatto che questa vedova getta nel tesoro tutto ciò che ha. Non le rimane niente, ma trova in Dio il suo tutto. Non teme di perdere il poco che ha, perché ha fiducia nel tanto di Dio, e questo tanto di Dio moltiplica la gioia di chi dona.
Questo ci fa pensare anche a quell’altra vedova, quella del profeta Elia, che stava per fare una focaccia con l’ultima farina che aveva e l’ultimo olio; Elia le dice: «Dammi da mangiare» e lei dà; e la farina non diminuirà mai, un miracolo (cfr. 1 Re 17,9-16). Il Signore sempre, davanti alla generosità della gente, va oltre, è più generoso. Ma è Lui, non l’avarizia nostra. Ecco allora che Gesù la propone come maestra di fede, questa signora: lei non frequenta il Tempio per mettersi la coscienza a posto, non prega per farsi vedere, non ostenta la fede, ma dona con il cuore, con generosità e gratuità. Le sue monetine hanno un suono più bello delle grandi offerte dei ricchi, perché esprimono una vita dedita a Dio con sincerità, una fede che non vive di apparenze ma di fi­ducia incondizionata. Impariamo da lei: una fede senza orpelli esteriori, ma interiormente sincera; una fede fatta di amore umile per Dio e per i fratelli.

Papa Francesco

 

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Lasciarsi abitare dalla Parola
Nella liturgia di oggi, il Vangelo racconta di uno scriba che si avvicina a Gesù e gli domanda: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28). Gesù risponde ci­tando la Scrittura e afferma che il primo comandamento è amare Dio; da questo poi, per naturale conseguenza, deriva il secondo: amare il prossimo come sé stessi (cfr. vv. 29-31). Udita questa risposta, lo scriba non soltanto la riconosce giusta ma nel farlo, nel riconoscerla giusta, ripete quasi le stesse parole dette da Gesù: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come sé stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (vv. 32-33).
Possiamo domandarci: perché, nel dare il suo assenso, quello scriba sente il bisogno di ridire le stesse parole di Gesù? Questa ripetizione pare tanto più sorprendente se pensiamo che siamo nel Vangelo di Marco, il quale ha uno stile molto conciso. Che senso ha allora questa ripe­tizione? Questa ripetizione è un insegnamento, per noi tutti che ascoltiamo. Perché la Parola del Signore non può essere ricevuta come una qualsiasi notizia di cronaca. La Parola del Signore va ripetuta, fatta propria, custodita. La tradizione monastica, dei monaci, usa un termine audace ma molto concreto. Dice così: la Parola di Dio va “ruminata”. “Ruminare” la Parola di Dio. Possiamo dire che è così nutriente che deve raggiungere ogni ambito della vita: coinvolgere, come dice Gesù oggi, tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente, tutta la forza (cfr. v. 30). La Parola di Dio deve risuonare, echeggiare e riecheggiare dentro di noi. Quando c’è quest’eco interiore che si ripete, significa che il Signore abita il cuore. E dice a noi, come a quel bravo scriba del Vangelo: «Non sei lontano dal Regno di Dio» (v. 34).
Cari fratelli e sorelle, il Signore non cerca tanto degli abili commentatori delle Scritture, cerca cuori docili che, accogliendo la sua Parola, si lasciano cambiare dentro. Ecco perché è così importante familiarizzare con il Vangelo, averlo sempre a portata di mano; anche un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa per leggerlo e rileggerlo, appassionarsene. Quando lo facciamo, Gesù, Parola del Padre, ci entra nel cuore, diventa intimo a noi e noi portiamo frutto in Lui. Prendiamo ad esempio il Vangelo di oggi: non basta leggerlo e capire che bisogna amare Dio e il prossimo. È necessario che questo comandamento, che è il “grande comandamento”, risuoni in noi, venga assimilato, diventi voce della nostra coscienza. Allora non rimane lettera morta, nel cassetto del cuore, perché lo Spirito Santo fa germogliare in noi il seme di quella Parola. E la Parola di Dio opera, è sempre in movimento, è viva ed efficace (cfr. Eb 4,12). Così ognuno di noi può diventare una “traduzione” vivente, diversa e originale. Non una ripetizione, ma una “traduzione” vivente, di­versa e originale, dell’unica Parola di amore che Dio ci dona. Questo lo vediamo nella vita dei Santi per esempio: nessuno è uguale all’altro, sono tutti diversi, ma tutti con la stessa Parola di Dio.
Oggi, dunque, prendiamo esempio da questo scriba. Ripetiamo le parole di Gesù, facciamole risuonare in noi: «Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza e il prossimo come me stesso». E chiediamoci: questo comandamento, orienta davvero la mia vita? Questo comandamento trova riscontro nelle mie giornate? Ci farà bene stasera, prima di addormentarci, fare l’esame di coscienza su questa Parola, vedere se oggi abbiamo amato il Signore e abbiamo donato un po’ di bene a chi ci è capitato di incontrare. Che ogni incontro sia dare un po’ di bene, un po’ di amore, che viene da questa Parola. La Vergine Maria, nella quale la Parola di Dio si è fatta carne, ci insegni ad accogliere nel cuore le parole vive del Vangelo.

Papa Francesco

 

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

A Colui che può tutto chiediamo tutto
Il Vangelo della liturgia di oggi narra di Gesù che, uscendo da Gerico, ridona la vista a Bartimeo, un cieco che mendica lungo la strada (cfr. Mc 10,46-52). È un incontro importante, l’ultimo prima dell’ingresso del Signore a Gerusalemme per la Pasqua. Bartimeo aveva perso la vista, ma non la voce! Infatti, quando sente che sta per passare Gesù, inizia a gridare: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). I discepoli e la folla sono infastiditi dalle sue grida e lo rimproverano perché taccia. Ma lui urla ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!» (v. 48). Gesù sente, e subito si ferma. Dio ascolta sempre il grido del povero, e non è per nulla disturbato dalla voce di Bartimeo, anzi, si accorge che è piena di fede, una fede che non teme di insistere, di bussare al cuore di Dio, malgrado l’incomprensione e i rimproveri. E qui sta la radice del miracolo. Infatti Gesù gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (v. 52).
La fede di Bartimeo traspare dalla sua preghiera. Non è una preghiera timida, convenzionale. Anzitutto chiama il Signore «Figlio di Davide»: cioè lo riconosce Messia, re che viene nel mondo. Poi lo chiama per nome, con confidenza: «Gesù». Non ha paura di Lui, non prende le distanze. E così, dal cuore, grida al Dio amico tutto il suo dramma: «Abbi pietà di me!». Soltanto quella preghiera: «Abbi pietà di me!». Non gli chiede qualche spicciolo come fa con i passanti. No. A Colui che può tutto chiede tutto. Alla gente chiede degli spiccioli, a Gesù che può fare tutto, chiede tutto: «Abbi pietà di me, abbi pietà di tutto ciò che sono». Non chiede una grazia, ma presenta sé stesso: chiede misericordia per la sua persona, per la sua vita. Non è una richiesta da poco, ma è bellissima, perché invoca la pietà, cioè la compassione, la misericordia di Dio, la sua tenerezza.
Bartimeo dice l’essenziale e si affida all’amore di Dio, che può far rifiorire la sua vita compiendo ciò che è impossibile agli uomini. Lui pregava con il cuore. E noi? Quando domandiamo una grazia a Dio, mettiamo nella preghiera anche la nostra propria storia, le ferite, le umiliazioni, i sogni infranti, gli errori, i rimorsi?
“Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”. Facciamo oggi noi questa preghiera. E chiediamoci: come va la mia preghiera? Ognuno di noi si domandi: come va la mia preghiera? È coraggiosa, ha l’insistenza buona di quella di Bartimeo, sa “afferrare” il Signore che passa, oppure si accontenta di fargli un salutino formale ogni tanto, quando mi ricordo?
Quelle preghiere tiepide che non aiutano per niente. E poi: la mia preghiera è  “sostanziosa”, mette a nudo il cuore davanti al Signore? Gli porto la storia e i volti della mia vita? Oppure è anemica, superficiale, fatta di rituali senza affetto e senza cuore? Quando la fede è viva, la preghiera è accorata: non mendica spiccioli, non si riduce ai bisogni del momento. A Gesù, che può tutto, va chiesto tutto. Non dimenticatevi di questo. A Gesù che può tutto va chiesto tutto, con la mia insistenza davanti a Lui.
Egli non vede l’ora di riversare la sua grazia e la sua gioia nei nostri cuori, ma purtroppo siamo noi a mantenere le distanze, forse per timidezza o pigrizia o incredulità.
Tanti di noi, quando preghiamo, non crediamo che il Signore può fare il miracolo.
Mi viene in mente quella storia — che io ho visto — di quel papà a cui i medici avevano detto che la sua bambina di nove anni non passava la notte; era in ospedale. E lui ha preso un bus ed è andato a settanta chilometri al santuario della Madonna. Era chiuso e lui, aggrappato alla cancellata, passò tutta la notte pregando: «Signore, salvala! Signore, dalle la vita!». Pregava la Madonna, tutta la notte gridando a Dio, gridando dal cuore. Poi al mattino, quando tornò in ospedale, trovò la moglie che piangeva. E lui pensò: «È morta». E la moglie disse: «Non si capisce, non si capisce, i medici dicono che è una cosa strana, sembra guarita». Il grido di quell’uomo che chiedeva tutto, è stato ascoltato dal Signore che gli aveva dato tutto. Questa non è una storia: questo l’ho visto io, in un’altra diocesi. Abbiamo questo coraggio nella preghiera? A Colui che può darci tutto, chiediamo tutto.

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Una questione di libertà
La liturgia di oggi ci propone l’incontro tra Gesù e un uomo che «possedeva molti beni» (Mc 10,22) e che è passato alla storia come “il giovane ricco” (cfr. Mt 19,20-22). Non sappiamo il nome. Il Vangelo di Marco, in realtà, parla di lui come di «un tale», senza dirne l’età e il nome, a suggerirci che in quell’uomo possiamo vederci tutti, come in uno specchio. Il suo incontro con Gesù, infatti, ci permette di fare un test sulla fede. Io mi faccio, leggendo questo, un test sulla mia fede.
Quel tale esordisce con una domanda: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (v. 17). Ecco la sua religiosità: un dovere, un fare per avere; «faccio qualcosa per ottenere quel che mi serve». Ma questo è un rapporto commerciale con Dio. La fede, invece, non è un rito freddo e meccanico, un “devo-faccio-ottengo”. È questione di libertà e di amore. La fede è questione di libertà, è questione di amore. Ecco un primo test: che cos’è per me la fede? Se è principalmente un dovere o una moneta di scambio, siamo fuori strada, perché la salvezza è un dono e non un dovere, è gratuita e non si può comprare. La prima cosa da fare è liberarci di una fede commerciale e meccanica, che insinua l’immagine falsa di un Dio contabile, un Dio controllore, non padre. E tante volte nella vita possiamo vivere questo rapporto di fede “commerciale”: io faccio questo perché Dio mi dia questo.
Gesù aiuta quel tale offrendogli il volto vero di Dio. Infatti «fissò lo sguardo su di lui» e “do amò” (v. 21): questo è Dio! Ecco da dove nasce e rinasce la fede: non da un dovere, non da qualcosa da fare o pagare, ma da uno sguardo di amore da accogliere. Così la vita cristiana diventa bella, se non si basa sulle nostre capacità e sui nostri progetti, ma si basa sullo sguardo di Dio. La tua fede, la mia fede è stanca? Vuoi rinvigorirla? Cerca lo sguardo di Dio: mettiti in adorazione, lasciati perdonare nella Confessione, stai davanti al crocifisso. Insomma, lasciati amare da Lui. Questo è l’inizio della fede: lasciarsi amare da Lui, che è padre.
Dopo la domanda e lo sguardo c’è un invito di Gesù, che dice: «Una cosa sola ti manca». Che cosa mancava a quell’uomo ricco? Il dono, la gratuità: «Va’, vendi quello che hai, dallo ai poveri» (v. 21). È quello che forse manca anche a noi. Spesso fac­ciamo il minimo indispensabile, mentre Gesù ci invita al massimo possibile. Quante volte ci accontentiamo dei doveri — i precetti, qualche preghiera e tante cose così —mentre Dio, che ci dà la vita, ci domanda slanci di vita! Nel Vangelo di oggi si vede bene questo passaggio dal dovere al dono; Gesù inizia ricordando i comandamenti: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare…» e così via (v. 19), e arriva alla proposta positiva: «Va’, vendi, dona, seguimi!» (cfr. v. 21). La fede non può limitarsi ai no, perché la vita cristiana è un sì, un sì d’amore.
Cari fratelli e sorelle, una fede senza dono, una fede senza gratuità è una fede incompleta, è una fede debole, una fede ammalata. Potremmo paragonarla a un cibo ricco e nutriente a cui però manca sapore, o a una partita più o meno ben giocata ma senza gol: no, non va, manca il “sale”. Una fede senza dono, senza gratuità, senza opere di carità alla fine rende tristi: come quel tale che, pur guardato con amore da Gesù in persona, tornò a casa «rattristato» e «scuro in volto» (v. 22). Oggi possiamo domandarci: a che punto sta la mia fede? La vivo come una cosa meccanica, come un rapporto di dovere o di interesse con Dio? Mi ricordo di alimentarla lasciandomi guardare e amare da Gesù? Lasciarsi guardare e amare da Gesù; lasciare che Gesù ci guardi, ci ami. E, attirato da Lui, corrispondo con la gratuità, con generosità, con tutto il cuore?
La Vergine Maria, che ha detto a Dio un sì totale, un sì senza ma — non è facile dire dei sì senza ma: la Vergine ha fatto così, un sì senza ma — ci faccia assaporare la bellezza di fare della vita un dono.

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Riconoscersi piccoli
Nel Vangelo di oggi vediamo una reazione di Gesù piuttosto insolita: si indigna. E quello che più sorprende è che la sua indignazione non è causata dai farisei che lo mettono alla prova con domande sulla liceità del divorzio, ma dai suoi discepoli che, per proteggerlo dalla ressa della gente, rimproverano alcuni bambini che vengono portati da Gesù. In altre parole, il Signore non si sdegna con chi discute con Lui, ma con chi, per sollevarlo dalla fatica, allontana da Lui i bambini. Perché? È una bella domanda: perché il Signore fa questo?
Chi cerca Dio lo trova lì, nei piccoli, nei bisognosi: bisognosi non solo di beni, ma di cura e di conforto, come i malati, gli umiliati, i prigionieri, gli immigrati, i carcerati. Lì c’è Lui: nei piccoli. Ecco perché Gesù si indigna: ogni affronto fatto a un piccolo, a un povero, a un bambino, a un indifeso, è fatto a Lui. Oggi il Signore riprende questo insegnamento e lo completa. Infatti aggiunge: «Chi non accoglie il Regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Ecco la novità: il discepolo non deve solo servire i piccoli, ma riconoscersi lui stesso piccolo. E ognuno di noi, si riconosce piccolo davanti a Dio? Pensiamoci, ci aiuterà. Sapersi piccoli, sapersi bisognosi di salvezza, è indispensabile per accogliere il Signore. È il primo passo per aprirci a Lui. Spesso, però, ce ne dimentichiamo. Nella prosperità, nel benessere, abbiamo l’illusione di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di non aver bisogno di Dio. Fratelli e sorelle, questo è un inganno, perché ognuno di noi è un essere bisognoso, un piccolo. Dobbiamo cercare la nostra propria piccolezza e riconoscerla. E li troveremo Gesù.
Nella vita riconoscersi piccoli è un punto di partenza per diventare grandi. Se ci pensiamo, cresciamo non tanto in base ai successi e alle cose che abbiamo, ma soprattutto nei momenti di lotta e di fragilità. Lì, nel bisogno, maturiamo; li apriamo il cuore a Dio, agli altri, al senso della vita. Apriamo gli occhi, quando siamo piccoli, al vero senso della vita. Quando ci sentiamo piccoli di fronte a un problema, piccoli di fronte a una croce, a una malattia, quando proviamo fatica e solitudine, non scoraggiamoci. Sta cadendo la maschera della superficialità e sta riemergendo la nostra radicale fragilità: è la nostra base comune, il nostro tesoro, perché con Dio le fragilità non sono ostacoli, ma opportunità.
Infatti, proprio nella fragilità scopriamo quanto Dio si prende cura di noi. Il Vangelo oggi dice che Gesù è tenerissimo con i piccoli: «Prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro» (v. 16). Le contrarietà, le situazioni che rivelano la nostra fragilità sono occasioni privilegiate per fare esperienza del suo amore. Lo sa bene chi prega con perseveranza: nei momenti bui o di solitudine, la tenerezza di Dio verso di noi si fa ancora più presente. Quando noi siamo piccoli, la tenerezza di Dio la sentiamo di più. Questa tenerezza ci dà pace, questa tenerezza ci fa crescere, perché Dio si avvicina col suo modo, che è vicinanza, compassione e tenerezza. E quando noi ci sentiamo poca cosa, cioè piccoli, il Signore si avvicina di più, lo sentiamo più vicino. Ci dà pace, ci fa crescere. Nella preghiera il Signore ci stringe a sé, come un papà col suo bambino. Così diventiamo grandi: non nell’illusoria pretesa della nostra autosufficienza  ma nella fortezza di riporre nel Padre ogni speranza. Proprio come fanno i piccoli, fanno così.

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Una Chiesa accogliente
Il Vangelo della liturgia odierna ci racconta un breve dialogo tra Gesù e l’apostolo Giovanni, che parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli. Essi hanno visto un uomo che scacciava i demoni nel nome del Signore, ma glielo hanno impedito perché non faceva parte del loro gruppo. Gesù, a questo punto, li invita a non ostacolare chi si adopera nel bene, perché concorre a realizzare il progetto di Dio (cfr. Mc 9,38-41). Poi ammonisce: invece di dividere le persone in buone e cattive, tutti siamo chiamati a vigilare sul nostro cuore, perché non ci succeda di soccombere al male e di dare scandalo agli altri (cfr. vv. 42-45.47-48).
Le parole di Gesù svelano, insomma, una tentazione e offrono un’esortazione. La tentazione è quella della chiusura. I discepoli vorrebbero impedire un’opera di bene solo perché chi l’ha compiuta non apparteneva al loro gruppo. Pensano di avere “l’esclusiva su Gesù” e di essere gli unici autorizzati a lavorare per il Regno di Dio. Ma così finiscono per sentirsi prediletti e considerano gli altri come estranei, fino a diventare ostili nei loro confronti. Fratelli e sorelle, ogni chiusura, infatti, fa tenere a distanza chi non la pensa come noi e questo — lo sappiamo — è la radice di tanti mali della storia: dell’assolutismo che spesso ha generato dittature e di tante violenze nei confronti di chi è diverso.
Ma occorre anche vigilare sulla chiusura nella Chiesa. Perché il diavolo, che è il divisore — questo significa la parola “diavolo”, che fa la divisione — insinua sempre sospetti per dividere ed escludere la gente. Tenta con furbizia, e può succedere come a quei discepoli che arrivano a escludere persino chi aveva cacciato il diavolo stesso! A volte anche noi, invece di essere comunità umili e aperte, possiamo dare l’impressione di fare “i primi della classe” e tenere gli altri a distanza; invece che cercare di camminare con tutti, possiamo esibire la nostra “patente di credenti”: «io sono credente», «io sono cattolico», «io sono cattolica», «io appartengo a questa associazione, all’altra…»; e gli altri poveretti no. Questo è un peccato. Esibire la “patente di credenti” per giudicare ed escludere. Chiediamo la grazia di superare la tentazione di giudicare e di catalogare, e che Dio ci preservi dalla mentalità del “nido”, quella di custodirci gelosamente nel piccolo gruppo di chi si ritiene buono: il prete con i suoi fedelissimi, gli operatori pastorali chiusi tra di loro perché nes­suno si infiltri, i movimenti e le associazioni nel proprio carisma particolare, e così via. Chiusi. Tutto ciò rischia di fare delle comunità cristiane dei luoghi di separazione e non di comunione. Lo Spirito Santo non vuole chiusure; vuole apertura, comunità accoglienti dove ci sia posto per tutti.
E poi nel Vangelo c’è l’esortazione di Gesù: invece di giudicare tutto e tutti, stiamo attenti a noi stessi! Infatti, il rischio è quello di essere inflessibili verso gli altri e indulgenti verso di noi. E Gesù ci esorta a non scendere a patti col male, con immagini che colpiscono: «Se qualcosa in te è motivo di scandalo, taglialo!» (cfr. vv. 43-48).
Se qualcosa ti fa male, taglialo! Non dice: «Se qualcosa è motivo di scandalo, fermati, pensaci su, migliora un po’…». No: «Taglialo! Subito!». Gesù è radicale in questo, esigente, ma per il nostro bene, come un bravo medico. Ogni taglio, ogni potatura, è per crescere meglio e portare frutto nell’amore. Chiediamoci allora: cosa c’è in me che contrasta col Vangelo? Che cosa, concretamente, Gesù vuole che io tagli nella mia vita?
Preghiamo la Vergine immacolata, perché ci aiuti a essere accoglienti verso gli altri e vigilanti su noi stessi.

Papa Francesco

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Il primato del servizio
Il Vangelo della liturgia odierna (cfr. Mc 9,30-37) narra che, lungo il cammino verso Gerusalemme, i discepoli di Gesù discutevano su chi «tra loro fosse più grande» (v. 34). Allora Gesù rivolse loro una frase forte, che vale anche per noi oggi: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (v. 35). Se tu vuoi essere il primo, devi andare in coda, essere l’ultimo, e servire tutti. Mediante questa frase lapidaria, il Signore inaugura un capovolgimento: rovescia i criteri che segnano che cosa conta davvero. Il valore di una persona non dipende più dal ruolo che ricopre, dal successo che ha, dal lavoro che svolge, dai soldi in banca; la grandezza e la riuscita, agli occhi di Dio, hanno un metro diverso: si misurano sul servizio. Non su quello che si ha, ma su quello che si dà. Vuoi primeggiare? Servi. Questa è la strada.
Oggi la parola “servizio” appare un po’ sbiadita, logorata dall’uso. Ma nel Vangelo ha un significato preciso e concreto. Servire non è un’espressione di cortesia: è fare come Gesù, il quale, riassumendo in poche parole la sua vita, ha detto di essere venuto «non per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Così ha detto il Signore. Dunque, se vogliamo seguire Gesù, dobbiamo percorrere la via che Lui stesso ha tracciato, la via del servizio. La nostra fedeltà al Signore dipende dalla nostra disponibilità a servire. E questo, lo sappiamo, costa, perché “sa di croce”. Ma, mentre crescono la cura e la disponibilità verso gli altri, diventiamo più liberi dentro, più simili a Gesù. Più serviamo, più avvertiamo la presenza di Dio. Soprattutto quando serviamo chi non ha da restituirci, i poveri, abbracciandone le difficoltà e i bisogni con la tenera com­passione: e li scopriamo di essere a nostra volta amati e abbracciati da Dio.
Gesù, proprio per illustrare questo, dopo aver parlato del primato del servizio, compie un gesto. Abbiamo visto che i gesti di Gesù sono più forti delle parole che usa. E qual è il gesto? Prende un bambino e lo pone in mezzo ai discepoli, al centro, nel luogo più importante.
Il bambino, nel Vangelo, non simboleggia tanto l’innocenza, quanto la piccolezza. Perché i piccoli, come i bambini, dipendono dagli altri, dai grandi, hanno bisogno di ricevere. Gesù abbraccia quel bambino e dice che chi accoglie un piccolo, un bambino, accoglie Lui.
Ecco anzitutto chi servire: quanti hanno bisogno di ricevere e non hanno da restituire. Servire coloro che hanno bisogno di ricevere e non hanno da restituire. Accogliendo chi è ai margini, trascurato, accogliamo Gesù, perché Egli sta lì. E in un piccolo, in un povero che serviamo riceviamo anche noi l’abbraccio tenero di Dio.
Cari fratelli e sorelle, interpellati dal Vangelo, facciamoci delle domande: io, che seguo Gesù, mi interesso a chi è più trascurato? Oppure, come i discepoli quel giorno, vado in cerca di gratificazioni personali? Intendo la vita come una competizione per farmi spazio a discapito degli altri oppure credo che primeggiare significa servire? E, concretamente: dedico tempo a qualche “piccolo”, a una persona che non ha i mezzi per contraccambiare? Mi occupo di qualcuno che non può restituirmi o solo dei miei parenti e amici? Sono domande che noi possiamo farci.

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Una relazione personale
Nel brano evangelico di oggi (cfr. Mc 8,27-35), ritorna la domanda che attraversa tutto il Vangelo di Marco: chi è Gesù? Ma questa volta è Gesù stesso che la pone ai discepoli, aiutandoli gradualmente ad affrontare l’interrogativo sulla sua identità. Prima di interpellare direttamente loro, i Dodici, Gesù vuole sentire da loro che cosa pensa di Lui la gente; e sa bene che i discepoli sono molto sensibili alla popolarità del Maestro! Perciò domanda: «La gente, chi dice che io sia?» (v. 27). Ne emerge che Gesù è considerato dal popolo un grande profeta. Ma, in realtà, a Lui non interessano i sondaggi e le chiacchiere della gente. Egli non accetta nemmeno che i suoi discepoli rispondano alle sue domande con formule preconfezionate, citando personaggi famosi della Sacra Scrittura, perché una fede che si riduce alle formule è una fede miope.
Il Signore vuole che i suoi discepoli di ieri e di oggi instaurino con Lui una relazione personale, e così lo accolgano al centro della loro vita. Per questo li sprona a porsi in tutta verità di fronte a sé stessi, e chiede: «Ma voi, chi dite che io sia?» (v. 29). Gesù, oggi, rivolge questa richiesta così diretta e confidenziale a ciascuno di noi: «Tu, chi dici che io sia? Voi, chi dite che io sia? Chi sono io per te?». Ognuno è chiamato a rispondere, nel proprio cuore, lasciandosi illuminare dalla luce che il Padre ci dà per conoscere il suo Figlio Gesù. E può accadere anche a noi, come a Pietro, di affermare con entusiasmo: «Tu sei il Cristo». Quando però Gesù ci dice chiaramente quello che disse ai discepoli, cioè che la sua missione si compie non nella strada larga del successo, ma nel sentiero arduo del Servo sofferente, umiliato, rifiutato e crocifisso, allora può capitare anche a noi, come a Pietro, di protestare ribellarci perché questo contrasta con le nostre attese, con le attese mondane. In quei momenti, anche noi meritiamo il salutare rimprovero di Gesù: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (v. 33).
Fratelli e sorelle, la professione di fede in Gesù Cristo non può fermarsi alle parole, ma chiede di essere autenticata da scelte e gesti concreti, da una vita improntata all’amore di Dio, di una vita grande, di una vita con tanto amore per il prossimo. Gesù ci dice che per seguire Lui, per essere suoi discepoli, bisogna rinnegare sé stessi, cioè le pretese del proprio orgoglio egoistico, e prendere la propria croce. Poi dà a tutti una regola fondamentale. E qual è questa regola? «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà». Spesso nella vita, per tanti motivi, sbagliamo strada, cercando la felicità solo nelle cose, nelle persone che trattiamo come cose. Ma la felicità la troviamo soltanto quando l’amore, quello vero, ci incontra, ci sorprende, ci cambia. L’amore cambia tutto! E l’amore può cambiare anche noi, ognuno di noi. Lo dimostrano le testimonianze dei santi.
La Vergine Maria che ha vissuto la sua fede seguendo fedelmente il suo Giglio Gesù, aiuti anche noi a camminare nella sua strada, spendendo generosamente la nostra vita per Lui e per i fratelli.

Papa Francesco

 

XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Purificare il proprio cuore
Il Vangelo della liturgia di oggi mostra alcuni scribi e farisei stupiti dall’atteggiamento di Gesù. Sono scandalizzati perché i suoi discepoli prendono cibo senza compiere prima le tradizionali abluzioni rituali. Pensano tra «Questo modo di fare è contrario alla pratica religiosa (cfr. Mc 7,2-5).
Anche noi potremmo chiederci: perché Gesù e i suoi discepoli trascurano queste tradizioni? In fondo non sono cose cattive, ma buone abitudini rituali, semplici lavaggi prima di prendere cibo. Perché Gesù non ci bada. Perché per Lui è importante riportare la fede al suo centro. Nel Vangelo lo vediamo continuamente: questo riportare la fede al centro. Ed evitare un rischio, che vale per quegli scribi come per noi: osservare formalità esterne mettendo in secondo piano il cuore della fede.
Anche tante volte ci “trucchiamo” l’anima. La formalità esterna e non il cuore della fede: questo è un rischio. È il rischio di una religiosità dell’apparenza: apparire per bene fuori trascurando di purificare il cuore.
C’è sempre la tentazione di “sistemare Dio” con qualche devozione esteriore, Gesù non si accontenta di questo culto. Gesù non vuole esteriorità, vuole una fede che arrivi al cuore.