L’INCONTRO CHE CAMBIA LA VITA

Il Vangelo di questa seconda domenica del Tempo ordinario (cfr. Gv 1,35-42) presenta l’incontro di Gesù con i suoi primi discepoli. La scena si svolge presso il fiume Giordano, il giorno dopo il Battesimo di Gesù. È lo stesso Giovanni Battista a indicare a due di loro il Messia con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio!» (v. 36). E quei due, fidandosi della testimonianza del Battista, vanno dietro a Gesù. Lui se ne accorge e chiede: «Che cosa cercate?», e loro gli domandano: «Maestro, dove dimori?» (v. 38).
Gesù non risponde: «Abito a Cafarnao o a Nazaret», ma dice: «Venite e vedrete» (v. 39). Non un biglietto da visita, ma l’invito a un incontro. I due lo seguono e quel pomeriggio rimangono con Lui. Non è difficile immaginarli seduti a farGli domande e soprattutto ad ascoltarLo, sentendo che il loro cuore si riscalda sempre più mentre il Maestro parla. Avvertono la bellezza di parole che rispondono alla loro speranza più grande. E all’improvviso scoprono che, mentre intorno si fa sera, in loro, nel loro cuore, esplode la luce che solo Dio può donare. Una cosa che attira l’attenzione: uno di loro, sessant’anni dopo, o forse di più, scrisse nel Vangelo: “Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1,39), scrisse l’ora. E questa è una cosa che ci fa pensare: ogni autentico incontro con Gesù rimane nella memoria viva, non si dimentica mai. Tanti incontri tu li dimentichi, ma l’incontro vero con Gesù rimane sempre. E questi, tanti anni dopo, si ricordavano anche l’ora, non avevano potuto dimenticare questo incontro così felice, così pieno, che aveva cambiato la loro vita. Poi, quando escono da questo incontro e ritornano dai loro fratelli, questa gioia, questa luce straripa dai loro cuori come un fiume in piena. Uno dei due, Andrea, dice al fratello Simone — che Gesù chiamerà Pietro quando lo incontrerà —: «Abbiamo trovato il Messia» (v. 41). Sono usciti sicuri che Gesù era il Messia, certi.
Fermiamoci un momento su questa esperienza dell’incontro con Cristo che chiama a stare con Lui. Ogni chiamata di Dio è un’iniziativa del suo amore. Sempre è Lui che prende l’iniziativa, Lui ti chiama. Dio chiama alla vita, chiama alla fede, e chiama a uno stato particolare di vita: «Io voglio te qui». La prima chiamata di Dio è quella alla vita, con la quale ci costituisce come persone; è una chiamata individuale, perché Dio non fa le cose in serie. Poi Dio chiama alla fede e a far parte della sua famiglia, come figli di Dio. Infine, Dio chiama a uno stato particolare di vita: a donare noi stessi nella via del matrimonio, in quella del sacerdozio o della vita consacrata. Sono modi diversi di realizzare il progetto di Dio, quello che Lui ha su ciascuno di noi, che è sempre un disegno d’amore. Dio chiama sempre. E la gioia più grande per ogni credente è rispondere a questa chiamata, offrire tutto sé stesso al servizio di Dio e dei fratelli. Fratelli e sorelle, di fronte alla chiamata del Signore, che ci può giungere in mille modi anche attraverso persone, avvenimenti lieti e tristi, a volte il nostro atteg­giamento può essere di rifiuto — «No… Ho paura…» —, rifiuto perché essa ci sembra in contrasto con le nostre aspirazioni; e anche la paura, perché la riteniamo troppo impegnativa e scomoda: «Oh non ce la farò, meglio di no, meglio una vita più tranquilla… Dio là, io qua». Ma la chiamata di Dio è amore, dobbiamo cercare di trovare l’amore che è dietro ogni chiamata, e si risponde ad essa solo con l’amore. Questo è il linguaggio: la risposta a una chiamata che viene dall’amore è solo l’amore. All’inizio c’è un incontro, anzi, c’è l’incontro con Gesù, che ci parla del Padre, ci fa conoscere il suo amore. E allora anche in noi sorge spontaneo il desiderio di comunicarlo alle persone che amiamo: «Ho incontrato l’Amore», «ho incontrato il Messia», «ho incontrato Dio», «ho incontrato Gesù», «ho trovato il senso della mia vita». In una parola: ho trovato Dio.

LA GRANDEZZA DEL QUOTIDIANO

Oggi festeggiamo il Battesimo del Signore. Abbiamo lasciato, ieri, Gesù bambino visitato dai Magi; oggi lo ritroviamo adulto sulle rive del Giordano. La liturgia ci fa compiere un salto di trent’anni di cui sappiamo una cosa: furono anni di vita nascosta, che Gesù trascorse in famiglia — alcuni, prima, in Egitto, come migrante per fuggire dalla persecuzione di Erode, gli altri a Nazaret, imparando il mestiere di Giuseppe —, in famiglia obbedendo ai genitori, studiando e lavorando. Pensiamo che, secondo i Vangeli, sono stati tre gli anni di prediche, di miracoli e tante cose. Tre. E gli altri, tutti gli altri, di vita nascosta in famiglia. È un bel messaggio per noi: ci svela la grandezza del quotidiano, l’importanza agli occhi di Dio di ogni gesto e momento della vita, anche il più semplice, anche il più nascosto.
Dopo questi trent’anni di vita nascosta inizia la vita pubblica di Gesù. E comincia proprio con il Battesimo al fiume Giordano. Ma Gesù è Dio, perché Gesù si fa battezzare? Il Battesimo di Giovanni consisteva in un rito penitenziale, era segno della volontà di convertirsi, di essere migliori, chiedendo perdono dei propri peccati. Gesù non ne aveva certo bisogno. Infatti Giovanni Battista cerca di opporsi, ma Gesù insiste. Perché? Perché vuole stare con i peccatori: per questo si mette in coda con loro e compie il loro stesso gesto. Lo fa con l’atteggiamento del popolo, come dice un inno liturgico, si avvicinava «nuda l’anima e nudi i piedi». L’anima nuda, cioè senza coprire niente, così, peccatore. Questo è il gesto che fa Gesù, e scende nel fiume per immergersi nella nostra stessa con­dizione. Nel primo giorno del suo ministero, Gesù ci offre così il suo “manifesto programmatico”. Ci dice che Lui non ci salva dall’alto con una decisione sovrana o un atto di forza, un decreto, no: Lui ci salva venendoci incontro e prendendo su di sé i nostri peccati. Ecco come Dio vince il male del mondo: abbassandosi, facendosene carico. È anche il modo in cui noi possiamo risollevare gli altri: non giudicando, non intimando che cosa fare, ma facen­doci vicini, con-patendo, condividendo l’amore di Dio. La vicinanza è lo stile di Dio nei nostri confronti.
Dopo questo gesto di compassione di Gesù, accade una cosa straordinaria: i cieli si aprono e si svela finalmente la Trinità. Lo Spirito Santo scende in forma di colomba e il Padre dice a Gesù: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (v. 11). Dio si manifesta quando appare la misericordia. Non dimenticare questo: Dio si manifesta quando appare la misericordia, perché quello è il suo volto. Gesù si fa servo dei peccatori e viene proclamato Figlio; si abbassa su di noi e lo Spirito scende su di Lui. Amore chiama amore. Vale anche per noi: in ogni gesto di servizio, in ogni opera di misericordia che compiamo Dio si manifesta, Dio pone il suo sguardo sul mondo. Questo vale per noi.
Ma, ancora prima che facciamo qualsiasi cosa, la nostra vita è segnata della misericordia che si è posata su di noi. Siamo stati salvati gratuitamente. La salvezza è gratis. È il gesto gratuito di misericordia di Dio nei nostri confronti. Sacramentalmente questo si fa il giorno del nostro Battesimo; ma anche coloro che non sono battezzati ricevono la misericordia di Dio sempre, perché Dio è lì, aspetta, aspetta che si aprano le porte dei cuori. Si avvicina, mi permetto di dire, ci carezza con la sua misericordia.

Evangelizzare con la famiglia

Sacra Famiglia

A pochi giorni dal Natale, la liturgia ci invita a fissare lo sguardo sulla Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. È bello riflettere sul fatto che il Figlio di Dio ha voluto aver bisogno, come tutti i bambini, del calore di una famiglia. Proprio per questo, perché è la famiglia di Gesù, quella di Nazaret è la famiglia-modello, in cui tut­te le famiglie del mondo possono trovare il loro sicuro punto di riferimento e una sicura ispirazione. A Nazaret è germogliata la primavera della vita umana del Figlio di Dio nel momento in cui Egli è stato concepito per opera dello Spirito Santo nel grembo verginale di Maria. Tra le mura ospitali della Casa di Nazaret si è svolta nella gioia l’infanzia di Gesù, circondato dalle premure materne di Maria e dalla cura di Giuseppe, nel quale Gesù ha potuto vedere la tenerezza di Dio.
Ad imitazione della Sacra Famiglia, siamo chiamati a riscoprire il valore educativo del nucleo familiare: esso richiede di essere fondato sull’amore che sempre rigenera i rapporti aprendo orizzonti di speranza. In famiglia si potrà sperimentare una comunione sincera quando essa è casa di preghiera, quando gli affetti sono seri, profondi e puri, quando il perdono prevale sulle discordie, quando l’asprezza quotidiana del vivere viene addolcita dalla tenerezza reciproca e dalla serena adesione alla volontà di Dio. In questo modo, la famiglia si apre alla gioia che Dio dona a tutti coloro che sanno dare con gioia. Al tempo stesso, trova l’energia spirituale di aprirsi all’esterno, agli altri, al servizio dei fratelli, alla collaborazione per la costruzione di un mondo sempre nuovo e migliore; capace, perciò, di farsi portatrice di stimoli positivi; la famiglia evangelizza con l’esempio di vita. È vero, in ogni famiglia ci sono dei problemi, e a volte anche si litiga. «Padre, ho litigato…». Siamo umani, siamo deboli, e tutti abbiamo a volte questo fatto che litighiamo in famiglia. Io vi dirò una cosa: se litighiamo in famiglia, che non finisca la giornata senza fare la pace. «Sì, ho litigato», ma prima di finire la giornata, fai la pace. E sai perché? Perché la guerra fredda del giorno dopo è pericolosissima. Non aiuta. E poi, in famiglia ci sono tre parole, tre parole da custodi­re sempre: “permesso”, “grazie”, “scusa”. «Permesso», per non essere invadenti nella vita degli altri. «Permesso: posso fare qualcosa? Ti sembra che possa fare questo?». «Permesso». Sempre, non essere invadente. “Permesso”, la prima parola. “Grazie”: tanti aiuti, tanti servizi che ci facciamo in famiglia. Ringraziare sempre. La gratitudine è il sangue dell’anima nobile. «Grazie». E poi, la più difficile da dire: “scusa”. Perché noi sempre facciamo delle cose brutte e tante volte qualcuno si sente offeso di questo. «Scusami, scusami». Non dimenticatevi le tre parole: “permesso”, “grazie”, “scusa”. Se in una famiglia, nell’ambiente familiare ci sono queste tre parole, la famiglia va bene.
All’esempio di evangelizzare con la famiglia ci chiama la festa di oggi, riproponendoci l’ideale dell’amore coniugale e familiare.
Affidiamo alla Santa Famiglia di Nazaret, in par­ticolare a san Giuseppe sposo e padre sollecito, questo cammino con le famiglie di tutto il mondo.
La Vergine Maria, alla quale ci rivolgiamo ora con la preghiera dell’Angelus, ottenga alle famiglie del mondo intero di essere sempre più affascinate dall’ideale evangelico della Santa Famiglia, così da diventare fermento di nuova umanità e di una solidarietà concreta e universale.

Papa Francesco

 

 

«AVVENGA PER ME SECONDO LA TUA PAROLA»

In questa quarta e ultima domenica di Avvento, il Vangelo ci ripropone il racconto dell’Annunciazione. «Rallegrati», dice l’angelo a Maria, «concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù» (Lc 1,28.31). Sembra un annuncio di pura gioia, destinato a fare felice la Vergine: chi tra le donne del tempo non sognava di diventare la madre del Messia? Ma, insieme alla gioia, quelle parole preannunciano a Maria una grande prova. Perché? Perché in quel momento ella era «promessa sposa» (v. 27). In tale situazione, la Legge di Mosè stabiliva che non dovevano esserci rapporti e coabitazione. Dunque, avendo un figlio, Maria avrebbe trasgredito la Legge, e le pene per le donne erano terribili: era prevista la lapidazione (cfr. Dt 22,20-21). Certamente il messaggio divino avrà riempito il cuore di Maria di luce e di forza; tuttavia, ella si trovò di fronte a una scelta cruciale: dire “sì” a Dio rischiando tutto, compresa la vita, oppure declinare l’invito e andare avanti con il suo cammino ordinario.
Che cosa fa? Risponde così: «Avvenga per me secondo la tua Parola» (Le 1,38). Avvenga (fiat). L’espressione verbale indica un desiderio forte, indica la volontà che qualcosa si realizzi. Maria, in altre parole, non dice: «Se deve avvenire avvenga… se non si può fare altrimenti…». Non è rassegnazione. Non esprime un’accettazione debole e remissiva, esprime un desiderio forte, un desiderio vivo. Non è passiva, è attiva. Non subisce Dio, aderisce a Dio. È un’innamorata disposta a servire in tutto e subito il suo Signore. Avrebbe potuto chiedere un po’ di tempo per pensarci, oppure maggiori spiegazioni su che cosa sarebbe successo; magari porre qualche condizione… Invece non prende tempo, non fa aspettare Dio, non rinvia.
Quante volte — pensiamo a noi adesso — quante volte la nostra vita è fatta di rinvii, anche la vita spirituale! Per esempio: so che mi fa bene pregare, ma oggi non ho tempo… «Domani, domani, domani, domani…» rinviamo le cose: lo farò domani; so che aiutare qualcuno è importante…; «Sì, devo farlo: lo farò domani». È la stessa catena dei domani… Rinviare le cose. Oggi, alle porte del Natale, Maria ci invita a non rimandare, a dire “sì”: «Devo pregare? Sì, e prego». «Devo aiutare gli altri? Sì». Come farlo? Lo faccio. Senza rimandare. Ogni “sì” costa. Ogni “sì” costa, ma sempre meno di quanto costò a Lei quel “sì” coraggioso, quel “sì” pronto, quell’«avvenga per me secondo la tua Parola» che ci ha portato la salvezza.
E noi quali “sì” possiamo dire? In questo tempo […] facciamo qualcosa per chi ha di meno: non l’ennesimo regalo per noi e per i nostri amici, ma per un bisognoso a cui nessuno pensa! E un altro consiglio; perché Gesù nasca in noi, prepariamo il cuore: andiamo a pregare. Non lasciamoci “portare avanti” dal consumismo: «Devo comprare i regali, devo fare questo e quello…». Quella frenesia di fare tante cose… l’importante è Gesù. Il consumismo, fratelli e sorelle, ci ha sequestrato il Natale. Il consumismo non è nella mangiatoia di Betlemme: lì c’è la realtà, la povertà, l’amore. Prepariamo il cuore come ha fatto Maria: libero dal male, accogliente, pronto a ospitare Dio. «Avvenga per me secondo la tua Parola». È l’ultima frase della Vergine in questa ultima domenica di Avvento, ed è l’invito a fare un passo concreto verso il Natale.
Perché se la nascita di Gesù non tocca la vita nostra — la mia, la tua, tutte — se non tocca la vita, passa invano. Nell’Angelus ora anche noi diremo: «Si compia in me la tua Parola». La Madonna ci aiuti a dirlo con la vita, con l’atteggiamento di questi ultimi giorni, per prepararci bene al Natale.                                                       Papa Francesco

IN CAMMINO CON GIOIA

L’invito alla gioia è caratteristico del Tempo di Av­vento: l’attesa della nascita di Gesù, l’attesa che viviamo è gioiosa, un po’ come quando aspettiamo la visita di una persona che amiamo molto, ad esempio un amico che non vediamo da tanto tempo, un parente… Siamo in attesa gioiosa. E questa dimensione della gioia emerge specialmente oggi, la terza domenica, che si apre con l’esortazione di san Paolo «Rallegratevi sempre nel Signore» ( cfr. Fil 4,4.5). «Rallegratevi!». La gioia cristiana. E qual è il motivo di questa gioia? Che «il Signore è vicino» (v. 5). Più il Signore è vicino a noi, più siamo nella gioia; più Lui è lontano, più siamo nella tristezza. Questa è una regola per i cristiani.
Una volta un filosofo diceva una cosa più o meno così: «Io non capisco come si può credere oggi, perché coloro che dicono di credere hanno una faccia da veglia funebre. Non danno testimonianza della gioia della risur­rezione di Gesù Cristo». Tanti cristiani con quella faccia, sì, faccia da veglia funebre, faccia di tristezza… Ma Cristo è risorto! Cristo ti ama! E tu non hai gioia?
Il Vangelo secondo Giovanni oggi ci presenta il per­sonaggio biblico che — eccettuando la Madonna e san Giuseppe — per primo e maggiormente ha vissuto l’attesa del Messia e la gioia di vederlo arrivare: parliamo naturalmente di Giovanni il Battista (cfr. Gv 1,6-8.19-28). L’evangelista lo introduce in maniera solenne: «Venne un uomo mandato da Dio […]. Venne come testimone per dare testimonianza alla luce» (vv. 6-7). Il Battista è il primo testimone di Gesù, con la parola e con il dono della vita. Tutti i Vangeli concordano nel mostrare come lui abbia realizzato la sua missione indicando Gesù come il Cristo, l’Inviato di Dio promesso dai profeti. Giovanni era un leader del suo tempo. La sua fama si era diffusa in tutta la Giudea e oltre, fino alla Galilea. Ma lui non cedette nemmeno per un istante alla tentazione di attirare l’attenzione su di sé: sempre lui orientava a Colui che doveva venire. Diceva: «A lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (v. 27). Sempre segnalando il Signore. Come la Madonna sempre segnala il Signore: «Fate quello che Lui vi dirà». Sempre il Signore al centro. I santi intorno, segnalando il Signore. E chi non segnala il Signore non è santo!
Ecco la prima condizione della gioia cristiana: decentrarsi da sé e mettere al centro Gesù. Questa non è alienazione, perché Gesù è effettivamente il centro, è la luce che dà senso pieno alla vita di ogni uomo e donna che viene a porta a uscire da me stesso non per perdermi, ma per ritrovarmi mentre mi dono, mentre cerco il bene dell’altro.
Giovanni il Battista ha percorso un lungo cammino per arrivare a testimoniare Gesù. Il cammino della gioia non è una passeggiata. Ci vuole lavoro per essere sempre nella gioia. Giovanni ha lasciato tutto, fin da giovane, per mettere al primo posto Dio, per ascoltare con tutto il cuore e tutte le forze la sua Parola. Giovanni si è ritirato nel deserto spogliandosi di ogni cosa superflua, per essere più libero di seguire il vento dello Spirito Santo. Certo, alcuni tratti della sua personalità sono unici, irripetibili, non proponibili a tutti. Ma la sua testimonianza è paradigmatica per chiunque voglia cercare il senso della pro­pria vita e trovare la vera gioia. In particolare, il Battista è modello per quanti nella Chiesa sono chiamati ad an­nunciare Cristo agli altri: possono farlo solo nel distacco da sé stessi e dalla mondanità, non attirando le persone a sé ma orientandole a Gesù.
La gioia è questo: orientare a Gesù. E la gioia deve essere la caratteristica della nostra fede. Anche nei momenti bui, quella gioia interiore di sapere che il Signore è con me, che il Signore è con noi, che il Signore è risorto. Il Signore! Il Signore! Il Signore! Questo è il centro della nostra vita, e questo è il centro della nostra gioia. Pensate bene oggi: come mi comporto io? Sono una persona gioiosa che sa trasmettere la gioia di essere cristiano?

ATTESA E SPERANZA

I domenica di Avvento B

Oggi, prima domenica di Avvento, comincia un nuo­vo anno liturgico. In esso la Chiesa scandisce il corso del tempo con la celebrazione dei principali eventi della vita di Gesù e della storia della salvezza. Così facendo, come Madre, illumina il cammino della nostra esistenza, ci sostiene nelle occupazioni quotidiane e ci orienta verso l’incontro finale con Cristo. L’odierna liturgia ci invita a vivere il primo “tempo forte” che è questo dell’Avvento, il primo dell’anno liturgico, l’Avvento, che ci prepara al Natale, e per questa preparazione è un tempo di attesa, è un tempo di speranza. Attesa e speranza.
San Paolo (cfr. 1 Cor 1,3-9) indica l’oggetto dell’attesa. Qual è? La «manifestazione del Signore» (v. 7). L’apostolo invita i cristiani di Corinto, e anche noi, a concentrare l’attenzione sull’incontro con la persona di Gesù. Per un cristiano la cosa più importante è l’incontro continuo con il Signore, stare con il Signore. E così, abituati a stare con il Signore della vita, ci prepariamo all’incontro, a stare con il Signore nell’eternità. Ma il Signore viene ogni giorno, perché, con la sua grazia, possiamo compiere il bene nella nostra vita e in quella degli altri. Il nostro Dio è un Dio che viene. Non dimenticatevi questo: Dio è un Dio che viene, continuamente viene. Egli non delude la nostra attesa! Mai delude il Signore. Ci farà aspettare forse, ci farà aspettare qualche momento nel buio per far maturare la nostra speranza, ma mai delude. Il Signore sempre viene, sempre è accanto a noi. Alle volte non si fa vedere, ma sempre viene. È venuto in un preciso momento storico e si è fatto uomo per prendere su di sé i nostri peccati — la festività del Natale commemora questa prima venuta di Gesù nel momento storico —; verrà alla fine dei tempi come giudice universale; e viene anche una terza volta: viene ogni giorno a visitare il suo popolo, a visitare ogni uomo e donna che lo accoglie nella Parola, nei Sacramenti, nei fratelli e nelle sorelle. Gesù, ci dice la Bibbia, è alla porta e bussa. Ogni giorno. È alla porta del nostro cuore. Bussa. Tu sai ascoltare il Signore che bussa, che è venuto oggi per visitarti, che bussa al tuo cuore con un’inquietudine, con un’idea, con un’ispirazione? È venuto a Betlemme, verrà alla fine del mondo, ma ogni giorno viene da noi.
Ognuno di noi sperimenta nella vita momenti di delusione, di insuccesso e di smarrimento. Si corre il rischio di cadere nel pessimismo, il rischio di cadere in quella chiusura e nell’apatia. Come dobbiamo reagire di fronte a tutto ciò? Ce lo suggerisce il Salmo di oggi: «L’anima nostra attende il Signore: egli è nostro aiuto e nostro scudo. È in lui che gioisce il nostro cuore» (Sal 32,20-21). Cioè l’anima in attesa, un’attesa fiduciosa del Signore fa trovare conforto e coraggio nei momenti bui dell’esistenza. E da cosa nascono questo coraggio e questa scommessa fiduciosa? Da dove nascono? Nascono dalla speranza. E la speranza non delude, quella virtù che ci porta avanti guardando all’incontro con il Signore. L’Avvento è un incessante richiamo alla speranza: ci ricorda che Dio è presente nella storia per condurla al suo fine ultimo, per condurla alla sua pienezza, che è il Signore, il Signore Gesù Cristo. Dio è presente nella storia dell’umanità, è il «Dio con noi», Dio non è lontano, sempre è con noi, al punto che tante volte bussa alle porte del nostro cuore. Dio cammina al nostro fianco per sostenerci. Il Signore non ci abbandona; ci accompagna nelle nostre vicende esistenziali per aiutarci a scoprire il senso del cammino, il significato del quotidiano, per infonderci coraggio nelle prove e nel dolore. In mezzo alle tempeste della vita, Dio ci tende sempre la mano e ci libera dalle minacce. Questo è bello! Nel libro del Deuteronomio c’è un passo molto bello, che il profeta dice al popolo: «Pensate, quale popolo ha i suoi dèi vicini a sé come tu hai vicino me?». Nessuno, soltanto noi abbiamo questa grazia di avere Dio vicino a noi. Noi attendiamo Dio, speriamo che si manifesti, ma anche Lui spera che noi ci manifestiamo a Lui!                                                                      Buon Avvento a tutti!

 

Gesù Cristo Re dell’universo

La logica del servizio umile e generoso
Oggi celebriamo la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, con la quale si chiude l’anno liturgico, la gran­de parabola in cui si dispiega il mistero di Cristo: tutto l’anno liturgico. Egli è l’Alfa e l’Omega, l’inizio e il compimento della storia; e la liturgia odierna si concentra sull’”omega”, cioè sul traguardo finale. Il senso della storia lo si capisce te­nendo davanti agli occhi il suo culmine: la fine è anche il fine. Ed è proprio questo che fa Matteo, nel Vangelo di questa domenica (vv. 25,31-46), ponendo il discorso di Gesù sul giudizio universale all’epilogo della sua vita terrena: Lui, che gli uomini stanno per condannare, è in realtà il supremo giudice. Nella sua morte e risurrezione, Gesù si mostrerà il Signore della storia, il Re dell’universo, il Giudice di tutti. Ma il paradosso cristiano è che il Giudice non riveste una regalità temibile, ma è un pastore pieno di mitezza e di misericordia.  Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone, perché Lui stesso, il giudice, è presente in ciascuna di esse. Lui è giudice, Lui è Dio-uomo, ma Lui è anche il povero, Lui è nascosto, è presente nella persona dei poveri che Lui menziona proprio li. Dice Gesù: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto (o non avete fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete (o non l’avete) fatto a me» (vv. 40.45). Saremo giudicati sull’amore. Il giudizio sarà sull’amore. Non sul sentimento, no: saremo giudicati sulle opere, sulla compassione che si fa vicinanza e aiuto premuroso.
Io mi avvicino a Gesù presente nella persona dei malati, dei poveri, dei sofferenti, dei carcerati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia?
Dunque, il Signore, alla fine del mondo, ci chiederà: «Sei stato un po’ pastore come me?». Sei stato pastore di me che ero presente in questa gente che era nel bisogno, o sei stato indifferente?». Fratelli e sorelle, guardiamoci dalla logica dell’indifferenza, di quello che ci viene in mente subito: guardare da un’altra parte quando vediamo un problema. Ricordiamo la parabola del buon samaritano. Quel povero uomo, ferito dai briganti, buttato per terra, fra la vita e la morte, era lì solo. Passò un sacerdote, vide, e se ne andò, guardò da un’altra parte. Passò un levita, vide e guardò da un’altra parte. Io, davanti ai miei fratelli e sorelle nel bisogno, sono indifferente come questo sacerdote, come questo levita, e guardo da un’altra parte? Sarò giudicato su questo: su come mi sono avvicinato, di come ho guardato Gesù presente nei bisognosi. Questa è la logica, e non lo dico io, lo dice Gesù: «Quello che avete fatto a questo, a questo, a questo, lo avete fatto a me. E quello che non avete fatto a questo, a questo, a questo, non lo avete fatto a me, perché io ero lì». Che Gesù ci insegni questa logica, questa logica della prossimità, dell’avvicinarsi a Lui, con amore, nella persona dei più sofferenti.
Chiediamo alla Vergine Maria di insegnarci a regnare nel servire. La Madonna, assunta in cielo, ha ricevuto dal suo Figlio la corona regale, perché lo ha seguito fedelmente nella via dell’amore. Impariamo da lei a entrare fin da ora nel regno di Dio, attraverso la porta del servizio umile e generoso.                                                        Papa Francesco

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Tendi la tua mano al povero

In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la celebre parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Fa parte del discorso di Gesù sugli ul­timi tempi, che precede immediatamente la sua passione, morte e risurrezione. La parabola racconta di un ricco si­gnore che deve partire e, prevedendo una lunga assenza, affida i suoi beni a tre dei suoi servi: al primo affida cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Gesù specifica che la distribuzione è fatta «secondo le capacità di ciascuno» (v. 15). Così fa il Signore con tutti noi: ci conosce bene, sa che non siamo uguali e non vuole privilegiare nessuno a scapito degli altri, ma affida a ciascuno un capitale com­misurato alle capacità.
Durante l’assenza del padrone, i primi due servi si dan­no molto da fare, sino al punto di raddoppiare la somma loro affidata. Non così il terzo servo, il quale nasconde il talento in una buca: per evitare rischi, lo lascia lì, al riparo dai ladri, ma senza farlo fruttare. Arriva il momento del ri­torno del padrone, il quale chiama i servi al rendiconto. I primi due presentano il buon frutto del loro impegno, hanno lavorato e il padrone li loda, li ricompensa e li invita a partecipare alla sua festa, alla sua gioia. Il terzo, invece, accorgendosi di essere in difetto, comincia subito a giustificarsi, dicendo: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai spar­so. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (vv. 24-25). Si difende della sua pigrizia accusando il padrone di essere “duro”. Questa è un’abitudine che anche noi abbiamo: ci difendia­mo, tante volte, accusando gli altri. Ma loro non hanno colpa: la colpa è nostra, il difetto è nostro. E questo servo accusa gli altri, accusa il padrone per giustificarsi. Anche noi, tante volte, facciamo lo stesso. Allora il padrone lo rimprovera: lo chiama servo «malvagio e pigro» (v. 26); gli fa togliere il talento e lo fa gettare fuori dalla sua casa.
Questa parabola vale per tutti ma, come sempre, in particolare per i cristiani. Anche oggi ha tanta attualità: oggi, che è la Giornata dei poveri, dove la Chiesa dice a noi cristiani: «Tendi la mano al povero. Tendi la tua mano al povero. Non sei solo nella vita: c’è gente che ha bisogno di te. Non essere egoista, tendi la mano al povero». Tutti abbiamo ricevuto da Dio un “patrimonio” come esseri umani, una ricchezza umana, qualunque sia. E come di­scepoli di Cristo abbiamo ricevuto anche la fede, il Vangelo, lo Spirito Santo, i sacramenti e tante altre cose. Questi doni bisogna utilizzarli per operare il bene, per operare il bene in questa vita, come servizio a Dio e ai fratelli. E oggi la Chiesa ti dice, ci dice: «Utilizza quello che ti ha dato Dio e guarda i poveri. Guarda: ce ne sono tanti; anche nelle nostre città, nel centro della nostra città, sono tanti. Fate il bene!». Noi, a volte, pensiamo che essere cristiani sia non fare del male. E non fare del male è buono. Ma non fare del bene, non è buono. Noi dobbiamo fare del bene, uscire da noi stessi e guardare, guardare coloro che hanno più bisogno. C’è tanta fame, anche nel cuore delle nostre città, e tante volte noi entriamo in quella logica dell’indifferenza: il povero è lì, e guardiamo da un’altra parte. Tendi la tua mano al povero: è Cristo. Alcuni dicono: «Ma questi preti, questi vescovi che parlano dei poveri, dei poveri… Noi vogliamo che ci parlino della vita eterna!». Guarda, fratello e sorella, i poveri sono al centro del Vangelo; è Gesù che ci ha insegnato a parlare ai poveri, è Gesù che è venuto per i poveri. Tendi la tua mano al povero. Hai ricevuto tante cose, e tu lasci che tuo fratello, tua sorella muoia di fame? Cari fratelli e sorelle, ognuno dica nel suo cuore questo che Gesù ci dice oggi, ripeta nel suo cuore: «Tendi la tua mano al povero». E ci dice un’altra cosa, Gesù: «Sai, il povero sono io». Gesù ci dice questo: «Il povero sono io».
La Vergine Maria ha ricevuto un grande dono: Gesù stesso, ma non l’ha tenuto per sé, io ha dato al mondo, al suo popolo. Impariamo da lei a tendere la mano ai poveri.

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

La lampada della fede brilla con l’olio della carità

Il brano del Vangelo di questa domenica (Mt 25,1-13) ci invita a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della festa di tutti i Santi e della commemorazione dei Fedeli defunti. Gesù narra la parabola delle dieci vergini invitate a una festa nuziale, simbolo del regno dei cieli.
Ai tempi di Gesù c’era la consuetudine che le nozze si celebrassero di notte; pertanto il corteo degli invitati doveva procedere con le lampade accese. Alcune damigelle sono stolte: prendono le lampade ma non prendono con sé l’olio; quelle sagge, invece, assieme alle lampade prendono anche dell’olio. Lo sposo tarda a venire, e tutte si assopiscono. Quando una voce avverte che lo sposo sta per arrivare, le stolte, in quel momento, si accorgono di non avere olio per le loro lampade; lo chiedono alle sagge, ma queste rispondono che non possono darlo, perché non basterebbe per tutte. Mentre le stolte vanno a comprare l’olio, arriva lo sposo. Le ragazze sagge entrano con lui nella sala del banchetto, e la porta viene chiusa. Le altre arrivano troppo tardi e vengono respinte.
È chiaro che con questa parabola Gesù ci vuole dire che dobbiamo essere preparati all’incontro con Lui. Non solo all’incontro finale, ma anche ai piccoli e grandi in­contri di ogni giorno in vista di quell’incontro, per il quale non basta la lampada della fede, occorre anche l’olio della carità e delle opere buone. La fede che ci unisce veramente a Gesù è quella, come dice l’apostolo Paolo, «che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal5,6). È ciò che viene rappresentato dall’atteggiamento delle ragazze sagge.
Essere saggi e prudenti significa non aspettare l’ultimo mo­mento per corrispondere alla grazia di Dio, ma farlo attivamente da subito, cominciare da adesso. «Io… sì, poi più avanti mi convertirò…» — «Convertiti oggi! Cambia vita oggi!» — «Sì, sì… domani». E lo stesso dice domani, e così mai arriverà. Oggi! Se vogliamo essere pronti per l’ul­timo incontro con il Signore, dobbiamo sin d’ora coope­rare con Lui e compiere azioni buone ispirate al suo amore.
Dobbiamo vivere l’oggi, ma l’oggi che va verso il domani, verso quell’incontro, l’oggi carico di speranza. Se invece siamo vigilanti e facciamo il bene corrispondendo alla grazia di Dio, possiamo atten­dere con serenità l’arrivo dello sposo. Il Signore potrà ve­nire anche mentre dormiamo: questo non ci preoccuperà, perché abbiamo la riserva di olio accumulata con le opere buone di ogni giorno, accumulata con quell’attesa del Signore, che Lui venga il più presto possibile e che venga a portarmi con Lui.
Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, per­ché ci aiuti a vivere, come ha fatto Lei, una fede operosa: essa è la lampada luminosa con cui possiamo attraversare la notte oltre la morte e giungere alla grande festa della vita.

Papa Francesco

 

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il Vangelo di oggi (cfr Mt 23,1-12) è ambientato negli ultimi giorni della vita di Gesù, a Gerusalemme; giorni ca­richi di aspettative e anche di tensioni. Da una parte Gesù rivolge critiche severe agli scribi e ai farisei, dall’altra lascia importanti consegne ai cristiani di tutti i tempi, quindi anche a noi.
Egli dice alla folla: «Sulla cattedra di Mosè si sono se­duti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che dicono». Questo sta a significare che essi hanno l’autorità di insegnare ciò che è conforme alla Legge di Dio. Tutta­via, subito dopo, Gesù aggiunge: «…ma non agite secon­do le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (vv. 2-3).
Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo at­teggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esem­pio. L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione. Gesù denuncia apertamente alcuni comportamenti negativi degli scribi e di alcuni farisei: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sina­goghe, dei saluti nelle piazze» (vv. 6-7). Questa è una ten­tazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento del vivere solo per l’apparenza.
Poi Gesù dà le consegne ai suoi discepoli: «Non fatevi chia­mare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, per­ché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (vv. 8-11).
Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. Io vi dico che a me personalmente addolora vedere persone che psicologica­mente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificen­ze. Noi, discepoli di Gesù, non dobbiamo fare questo, poiché tra di noi ci dev’essere un atteggiamento semplice e fraterno. Siamo tutti fratelli e non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso. No. Siamo tutti fratelli. Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale. Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per un’esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.

Papa Francesco