XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Purificare il proprio cuore
Il Vangelo della liturgia di oggi mostra alcuni scribi e farisei stupiti dall’atteggiamento di Gesù. Sono scandalizzati perché i suoi discepoli prendono cibo senza compiere prima le tradizionali abluzioni rituali. Pensano tra «Questo modo di fare è contrario alla pratica religiosa (cfr. Mc 7,2-5).
Anche noi potremmo chiederci: perché Gesù e i suoi discepoli trascurano queste tradizioni? In fondo non sono cose cattive, ma buone abitudini rituali, semplici lavaggi prima di prendere cibo. Perché Gesù non ci bada. Perché per Lui è importante riportare la fede al suo centro. Nel Vangelo lo vediamo continuamente: questo riportare la fede al centro. Ed evitare un rischio, che vale per quegli scribi come per noi: osservare formalità esterne mettendo in secondo piano il cuore della fede.
Anche tante volte ci “trucchiamo” l’anima. La formalità esterna e non il cuore della fede: questo è un rischio. È il rischio di una religiosità dell’apparenza: apparire per bene fuori trascurando di purificare il cuore.
C’è sempre la tentazione di “sistemare Dio” con qualche devozione esteriore, Gesù non si accontenta di questo culto. Gesù non vuole esteriorità, vuole una fede che arrivi al cuore.

XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO B

Da chi andremo?
Il Vangelo della liturgia odierna ci mostra la reazione della folla e dei discepoli al discorso di Gesù dopo il miracolo dei pani. Gesù ha invitato a interpretare quel segno e a credere in Lui, che è il vero pane disceso dal cielo, il pane della vita; e ha rivelato che il pane che Lui darà è la sua carne e il suo sangue. Queste parole suonano dure e incomprensibili alle orecchie della gente, tanto che, da quel momento molti suoi discepoli tornano indietro, cioè smettono di seguire il Maestro. Allora Gesù interpella i Dodici: «Volete andarvene anche voi?», e Pietro, a nome di tutto il gruppo, conferma la decisione di stare con Lui: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo conosciuto e creduto che tu sei il Santo di Dio». Ed è una bella confessione di fede.
Da cosa nasce questa incredulità? Qual è il motivo di questo rifiuto?
Le parole di Gesù suscitano un grande scandalo: Egli sta dicendo che Dio ha scelto di manifestare sé stesso e di attuare la salvezza nella debolezza della carne umana. È il mistero dell’incarnazione. E l’incarnazione di Dio è ciò che suscita scandalo e che rappresenta per quella gente — ma spesso anche per noi — un ostacolo. Infatti, Gesù afferma che il vero pane della salvezza, che trasmette la vita eterna, è la sua stessa carne; che per entrare in comunione con Dio, prima di osservare delle leggi o soddisfare dei precetti religiosi, occorre vivere una relazione reale e concreta con Lui. Perché la salvezza è venuta da Lui, nella sua incarnazione. Questo significa che non bisogna inseguire Dio in sogni e immagini di grandezza e di potenza, ma bisogna riconoscerlo nell’umanità di Gesù e, di conseguenza, in quella dei fratelli e delle sorelle che incontriamo sulla strada della vita. Dio si è fatto carne. E quando noi diciamo questo, nel Credo, il giorno del Natale, il giorno dell’annunciazione, ci inginocchiamo per adorare questo mistero dell’incarnazione. Dio si è fatto carne e sangue: si è abbassato fino a diventare uomo come noi, si è umiliato fino a caricarsi delle nostre sofferenze e del nostro peccato, e ci chiede di cercarlo, perciò, non fuori dalla vita e dalla storia, ma nella relazione con Cristo e con i fratelli. Cercarlo nella vita, nella storia, nella vita nostra quotidiana. E questa, fratelli e sorelle, è la strada per l’incontro con Dio: la relazione con Cristo e i fratelli.
Anche oggi la rivelazione di Dio nell’umanità di Gesù può suscitare scandalo e non è facile da accettare. E questa “scandalosità” è ben rap­presentata dal sacramento dell’Eucaristia: che senso può avere, agli occhi del mondo, inginocchiarsi davanti a un pezzo di pane? Il mondo si scandalizza.
Di fronte al gesto prodigioso di Gesù che con cinque pani e due pesci sfama migliaia di persone, tutti lo acclamano e vogliono portarlo in trionfo, farlo re. Ma quando Lui stesso spiega che quel gesto è segno del suo sacrificio, cioè del dono della sua vita, della sua carne e del suo sangue, e che chi vuole seguirlo deve assimilare Lui, la sua umanità donata per Dio e per gli altri, allora non piace, questo Gesù ci mette in crisi. Anzi, preoccupiamoci se non ci mette in crisi, perché forse abbiamo annacquato il suo messaggio! E chiediamo la grazia di lasciarci provocare e convertire dalle sue «parole di vita eterna».

XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il cielo sulla terra
Il brano evangelico di questa domenica (cfr. Gv 6,51­58) ci introduce nella seconda parte del discorso che fece Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo aver sfamato una grande folla con cinque pani e due pesci: la moltiplicazione dei pani. Egli si presenta come «il pane vivo disceso dal cielo», il pane che dà la vita eterna, e aggiunge: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Questo passaggio è decisivo, e infatti provoca la reazione degli ascoltatori, che si mettono a discutere tra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52). Quando il segno del pane condiviso porta al suo significato vero, cioè il dono di sé fino al sacrificio, emerge l’incomprensione, emerge addirittura il rifiuto di Colui che poco prima si voleva portare in trionfo. Ricordiamoci che Gesù ha dovuto nascondersi perché volevano farlo re.
Gesù prosegue: «Se non mangiate la carne del figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Qui insieme alla carne compare anche il sangue. Carne e sangue nel linguaggio biblico esprimono l’umanità concreta. La gente e gli stessi discepoli intuiscono che Gesù li invita ad entrare in comunione con Lui, a “mangiare” Lui, la sua umanità, per condividere con Lui il dono della vita per il mondo. Altro che trionfi e miraggi di successo! È proprio il sacrificio di Gesù che dona sé stesso per noi.
Questo pane di vita, sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, viene a noi donato gratuitamente nella mensa dell’Eucaristia. Attorno all’altare troviamo ciò che ci sfama e ci disseta spiritualmente oggi e per l’eternità. Ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, in un certo senso, anticipiamo il cielo sulla terra, perché dal cibo eucaristico, il Corpo e il Sangue di Gesù, impariamo cos’è la vita eterna. Essa è vivere per il Signore: «Colui che mangia me vivrà per me» (v. 57), dice il Signore. L’Eucaristia ci plasma perché non viviamo solo per noi stessi, ma per il Signore e per i fratelli. La felicità e l’eternità della vita dipendono dalla nostra capacità di rendere fecondo l’amore evangelico che riceviamo nell’Eucaristia.
Gesù, come a quel tempo, anche oggi ripete a ciascuno di noi: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). Fratelli e sorelle, non si tratta di un cibo materiale, ma di un pane vivo e vivificante, che comunica la vita stessa di Dio. Quando facciamo la comunione riceviamo la vita stessa di Dio. Per avere questa vita è necessario nutrirsi del Vangelo e dell’amore dei fratelli.
Dinanzi all’invito di Gesù a nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, potrem­mo avvertire la necessità di discutere e di resistere, come hanno fatto gli ascoltatori di cui ha parlato il Vangelo di oggi. Questo avviene quando facciamo fatica a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù, ad agire secondo i suoi criteri e non secondo i criteri del mondo. Nutrendoci di questo cibo possiamo entrare in piena sintonia con Cristo, con i suoi sentimenti, con i suoi comportamenti. Questo è tanto importate: andare a Messa e comunicarsi, perché ricevere la comunione è ricevere questo Cristo vivo, che ci trasforma dentro e ci prepara per il cielo.

XIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il pane di vita
Nel Vangelo della liturgia odierna, Gesù continua a predicare alla gente che ha visto il prodigio della moltiplicazione dei pani. E invita quelle persone a fare un salto di qualità: dopo aver rievocato la manna, con cui Dio aveva sfamato i padri nel lungo cammino attraverso il deserto, ora applica il simbolo del pane a sé stesso. Dice chiara­mente: «Io sono il pane della vita» (Gv 6,48).
Che cosa significa pane della vita? Per vivere c’è bisogno di pane. Chi ha fame non chiede cibi raffinati e costosi, chiede pane. Chi è senza lavoro non chiede stipendi enormi, ma il “pane” di un impiego. Gesù si rivela come il pane, cioè l’essenziale, il necessario per la vita di ogni giorno, senza di Lui la cosa non funziona. Non un pane tra tanti altri, ma il pane della vita. In altre parole, noi, senza di Lui, più che vivere, vivacchiamo: perché solo Lui ci nutre l’anima, solo Lui ci perdona da quel male che da soli non riusciamo a superare, solo Lui ci fa sentire amati anche se tutti ci deludono, solo Lui ci dà la forza di amare, solo Lui ci dà la forza di perdonare nelle difficoltà, solo Lui dà al cuore quella pace di cui va in cerca, solo Lui dà la vita per sempre quando la vita quaggiù finisce. È il pane essenziale della vita. «Io sono il pane della vita», dice. Restiamo su questa bella immagine di Gesù. Avrebbe potuto fare un ragionamento, una dimostrazione, ma — lo sappiamo — Gesù parla in parabole, e in questa espressione «Io sono il pane della vita» riassume veramente tutto il suo essere e tutta la sua missione. Lo si vedrà pienamente alla fine, nell’Ultima Cena.   Gesù sa che il Padre gli chiede non solo di dare da mangiare alla gente, ma di dare sé stesso, di spezzare sé stesso, la propria vita, la propria carne, il proprio cuore perché noi possiamo avere la vita. Queste parole del Signore risvegliano in noi lo stupore per il dono dell’Eucaristia. Nessuno in questo mondo, per quanto ami un’altra persona, può farsi cibo per lei. Dio lo ha fatto, e lo fa, per noi. Rinnoviamo questo stupore. Facciamolo adorando il pane di vita, perché l’adorazione riempie la vita di stu­pore.
Nel Vangelo, però, anziché stupirsi, la gente si scan­dalizza, si strappa le vesti. Pensano: «Questo Gesù noi lo conosciamo, conosciamo la sua famiglia, come può dire: “Sono il pane disceso dal cielo”?» (cfr. vv. 41-42).
Anche noi forse ci scandalizziamo: ci farebbe più comodo un Dio che sta in cielo senza immischiarsi nella nostra vita, mentre noi possiamo gestire le faccende di quaggiù. Invece Dio si è fatto uomo per entrare nella concretezza del mondo, per entrare nella nostra concretezza, Dio si è fatto uomo per me, per te, per tutti noi, per entrare nella nostra vita. E tutto della nostra vita gli interessa. Gli possiamo raccontare gli affetti, il lavoro, la giornata, i dolori, le angosce, tante cose. Gli possiamo dire tutto perché Gesù desidera questa intimità con noi.
Che cosa non desidera? Essere relegato a contorno — Lui che è il pane —, essere trascurato e messo da parte, o chiamato in causa solo quando ne abbiamo bisogno.
Io sono il pane della vita. Almeno una volta al giorno ci troviamo a prendere cibo insieme; magari la sera, in famiglia, dopo una giornata di lavoro o di studio. Sarebbe bel­lo, prima di spezzare il pane, invitare Gesù, pane di vita, chiedergli con semplicità di benedire quello che abbiamo fatto e quello che non siamo riusciti a fare. Invitiamolo a casa, preghiamo in stile “domestico”. Gesù sarà a mensa con noi e saremo sfamati da un amore più grande. La Vergine Maria, nella quale il Verbo si è fatto carne, ci aiuti a crescere giorno dopo giorno nell’amicizia di Gesù, pane di vita.

 Papa Francesco

XVIII DOEMNICA DEL TEMPO ORDINARIO

La scena iniziale del Vangelo, nella liturgia odierna (cfr. Gv 6,24-35), ci presenta alcune barche in movimento verso Cafarnao: la folla sta andando a cercare Gesù. Potremmo pensare che sia una cosa molto buona, eppure il Vangelo ci insegna che non basta cercare Dio, bisogna anche chiedersi il motivo per cui lo si cerca. Infatti, Gesù afferma: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (v. 26). La gente, infatti, aveva assistito al prodigio della moltiplicazione dei pani, ma non aveva colto il significato di quel gesto: si era fermata al miracolo esteriore, si era fermata al pane materiale; soltanto li, senza andare oltre, al significato di questo.
Ecco allora una prima domanda che possiamo farci tutti noi: perché cerchiamo il Signore? Quali sono le motivazioni della mia fede, della nostra fede? Abbiamo bisogno di discernere questo, perché tra le tante tentazioni, che noi abbiamo nella vita ce n’è una che potremmo chiamare tentazione idolatrica. È quella che ci spinge a cercare Dio a nostro uso e consumo, per risolvere i problemi, per avere grazie a Lui quello che da soli non riusciamo a ottenere, per interesse. Ma in questo modo la fede rimane superficiale, cerchiamo Dio per sfamarci e poi ci dimentichiamo di Lui quando siamo sazi. Al centro di questa fede immatura non c’è Dio, ci sono i nostri bisogni. È giusto presentare al cuore di Dio le nostre necessità, ma il Signore, che agisce ben oltre le nostre attese, desidera vivere con noi anzitutto una relazione d’amore. E l’amore vero è disinteressato, è gratuito: non si ama per ricevere un favore in cambio! Questo è interesse; e tante volte nella vita noi siamo interessati.
Ci può aiutare una seconda domanda, quella che la folla rivolge a Gesù: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» (v. 28). È come se la gente, provocata da Gesù, dicesse: «Come fare per purificare la nostra ricerca di Dio? Come passare da una fede magica, che pensa solo ai propri bisogni, alla fede che piace a Dio?». E Gesù indica la strada: risponde che l’opera di Dio è accogliere Colui che il Padre ha mandato, cioè accogliere Lui stesso, Gesù. Non è aggiungere pratiche religiose o osservare speciali precetti; è accogliere Gesù, è accoglierlo nella vita, è vivere una storia d’amore con Gesù. Sarà Lui a purificare la nostra fede. Da soli non siamo in grado. Ma il Signore desidera con noi un rapporto d’amore: prima delle cose che riceviamo, c’è Lui da amare. C’è una relazione con Lui che va oltre le logiche dell’interesse e del calcolo.
Questo vale nei riguardi di Dio, ma vale anche nelle nostre relazioni umane e sociali: quando cerchiamo soprattutto il soddisfacimento dei nostri bisogni, rischiamo di usare le persone e di strumentalizzare le situazioni pei i nostri scopi. Quante volte abbiamo sentito da una persona: «Ma questa usa la gente e poi si dimentica». Usare le persone per il proprio profitto: è brutto questo. E una società che mette al centro gli interessi invece delle persone è una società che non genera vita. L’invito del Vangelo è questo: piuttosto che essere preoccupati soltanto del pane materiale che ci sfama, accogliamo Gesù come il pane della vita e, a partire dalla nostra amicizia con Lui, impariamo ad amarci tra di noi. Con gratuità e senza calcoli. Amore gratuito e senza calcoli, senza usare la gente, con gratuità, con generosità, con magnanimità.

XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Una ecologia del cuore
L’atteggiamento di Gesù, che osserviamo nel Vangelo della liturgia odierna (cfr. Mc 6,30-34), ci aiuta a cogliere due aspetti importanti della vita. Il primo è il riposo. Agli apostoli, che tornano dalle fatiche della missione e con entusiasmo si mettono a raccontare tutto quello che hanno fatto, Gesù rivolge con tenerezza un invito: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (v. 31). Invita al riposo.
Così facendo, Gesù ci dà un insegnamento prezioso. Anche se gioisce nel vedere i suoi discepoli felici per i prodigi della predicazione, non si dilunga in complimenti e domande, ma si preoccupa della loro stanchezza fisica interiore. E perché fa questo? Perché li vuole mettere in guardia da un pericolo, che è sempre in agguato anche per noi: il pericolo di lasciarsi prendere dalla frenesia del fare, cadere nella trappola dell’attivismo, dove la cosa più importante sono i risultati che otteniamo e il sentir­ci protagonisti assoluti. Quante volte accade anche nella Chiesa: siamo indaffarati, corriamo, pensiamo che tutto dipenda da noi e, alla fine, rischiamo di trascurare Gesù e torniamo sempre noi al centro. Per questo Egli invita i suoi a riposare un po’ in disparte, con Lui. Non è solo riposo fisico, è anche riposo del cuore. Perché non basta “staccare la spina”, occorre riposare davvero. E come si fa questo? Per farlo, bisogna ritornare al cuore delle cose. fermarsi, stare in silenzio, pregare, per non passare dalle corse del lavoro alle corse delle ferie. Gesù non si sottraeva ai bisogni della folla, ma ogni giorno, prima di ogni cosa, si ritirava in preghiera, in silenzio, nell’intimità con il Padre. Il suo tenero invito — riposatevi un po’ — dovrebbe accompagnarci: guardiamoci, fratelli e sorelle, dall’efficientismo, fermiamo la corsa frenetica che detta le nostre agende. Impariamo a sostare, a spegnere il telefonino, a contemplare la natura, a rigenerarci nel dialogo con Dio.
Tuttavia, il Vangelo narra che Gesù e i discepoli non possono riposare come vorrebbero. La gente li trova e accorre da ogni parte. A quel punto il Signore si muove a compassione. Ecco il secondo aspetto: la compassione, che è lo stile di Dio. Lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Quante volte nel Vangelo, nella Bibbia, troviamo questa frase: «Ebbe compassione». Commosso, Gesù si dedica alla gente e riprende a insegnare (cfr. vv. 33-34). Sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è. Infatti, solo il cuore che non si fa rapire dalla fretta è capace di commuoversi, cioè di non lasciarsi prendere da sé stesso e dalle cose da fare e di accorgersi degli altri, delle loro ferite, dei loro bisogni. La compassione nasce dalla contemplazione. Se impariamo a riposare davvero, diventiamo capaci di compassione vera; se coltiviamo uno sguardo contemplativo, porteremo avanti le nostre attività senza l’atteggiamento rapace di chi vuole possedere e consumare tutto; se restiamo in contatto con il Signore e non anestetizziamo la parte più profonda di noi, le cose da fare non avranno il potere di toglierci il fiato e di di­vorarci. Abbiamo bisogno — sentite questo —, abbiamo bisogno di una “ecologia del cuore”, che si compone di riposo, contemplazione e compassione. Approfittiamo del tempo estivo per questo!
E ora, preghiamo la Madonna, che ha coltivato il si­lenzio, la preghiera e la contemplazione, e si muove sempre a tenera compassione per noi suoi figli.

 Papa Francesco

 

 

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il volto della missione 
Il Vangelo di oggi (cfr. Mc 6,7-13) narra il momento in cui Gesù invia i Dodici in missione. Dopo averli chiamati per nome ad uno ad uno, «perché stessero con lui» (Mc 3,14) ascoltando le sue parole e osservando i suoi gesti di guarigione, ora li convoca di nuovo per «mandarli a due a due» (6,7) nei villaggi dove Lui stava per recarsi. È una sorta di “tirocinio” di quello che saranno chiamati a fare dopo la risurrezione del Signore con la potenza dello Spirito Santo.
Il brano evangelico si sofferma sullo stile del missionario, che possiamo riassumere in due punti: la missione ha un centro; la missione ha un volto.
Il discepolo missionario ha prima di tutto un suo centro di riferimento, che è la persona di Gesù. Il racconto lo indica usando una serie di verbi che hanno Lui per soggetto — «chiamò a sé», «prese a mandarli», «dava loro potere», «ordinò», «diceva loro» (vv. 7.8.10) —, cosicché l’andare e l’operare dei Dodici appare come l’irradiarsi da un centro, il riproporsi della presenza e dell’opera di Gesù nella loro azione missionaria. Questo manifesta come gli apostoli non abbiano niente di proprio da annunciare, né proprie capacità da dimostrare, ma parlano e agiscono in quanto “inviati”, in quanto messaggeri di Gesù.
Questo episodio evangelico riguarda anche noi, e non solo i sacerdoti, ma tutti i battezzati, chiamati a testimoniare, nei vari ambienti di vita, il Vangelo di Cristo. E an­che per noi questa missione è autentica solo a partire dal suo centro immutabile che è Gesù. Non è un’iniziativa dei singoli fedeli né dei gruppi e nemmeno delle grandi aggregazioni, ma è la missione della Chiesa inseparabilmente unita al suo Signore. Nessun cristiano annuncia il Vangelo “in proprio”, ma solo inviato dalla Chiesa che ha ricevuto il mandato da Cristo stesso. È proprio il Battesimo che ci rende missionari. Un battezzato che non sente il bisogno di annunciare il Vangelo, di annunciare Gesù, non è un buon cristiano.
La seconda caratteristica dello stile del missionario è, per così dire, un volto, che consiste nella povertà dei mezzi. Il suo equipaggiamento risponde a un criterio di sobrietà. I Dodici, infatti, hanno l’ordine di «non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura» (v. 8). Il Maestro li vuole liberi e leg­geri, senza appoggi e senza favori, sicuri solo dell’amore di Lui che li invia, forti solo della sua Parola che vanno ad annunciare. Il bastone e i sandali sono la dotazione dei pellegrini, perché tali sono i messaggeri del Regno di Dio, non manager onnipotenti, non funzionari inamovibili, non divi in tournée. Pensiamo, ad esempio, a questa diocesi del­la quale io sono il Vescovo. Pensiamo ad alcuni santi di questa diocesi di Roma: san Filippo Neri, san Benedetto Giuseppe Labre, sant’Alessio, santa Ludovica Albertini, santa Francesca Romana, san Gaspare Del Bufalo e tanti altri. Non erano funzionari o imprenditori, ma umili lavoratori del regno.
Avevano questo volto. E a questo “volto” appartiene anche il modo in cui viene accolto il messaggio: può infatti accadere di non essere accolti o ascoltati (cfr. v. 11). Anche questo è povertà: l’esperienza del fallimento. La vicenda di Gesù, che fu rifiutato e crocifisso, prefigura il destino del suo messaggero. E solo se siamo uniti a Lui, morto e risorto, riusciamo a trovare il coraggio dell’evangelizzazione.
La Vergine Maria, prima discepola e missionaria della Parola di Dio, ci aiuti a portare nel mondo il messaggio del Vangelo in una esultanza umile e radiosa, oltre ogni rifiuto, incomprensione o tribolazione.

Papa Francesco

XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il Vangelo che leggiamo nella liturgia di questa domenica (cfr. Mc 6,1-6) ci racconta l’incredulità dei compaesani di Gesù. Egli, dopo aver predicato in altri villaggi della Galilea, ripassa da Nazaret, dove era cresciuto con Maria e Giuseppe; e, un sabato, si mette a insegnare nella sinagoga. Molti, ascoltandolo, si domandano: «Da dove gli viene tutta questa sapienza? Ma non è il figlio del falegname e di Maria, cioè dei nostri vicini di casa che cono­sciamo bene?» (vv. 1-3). Davanti a questa reazione, Gesù afferma una verità che è entrata a far parte anche della sapienza popolare: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v. 4). Lo diciamo tante volte.
Potremmo dire che i suoi compaesani conoscono Gesù, ma non lo riconoscono. C’è differenza tra conoscere e riconoscere. In effetti, questa differenza ci fa capire che possiamo conoscere varie cose di una persona, farci un’idea, affidarci a quello che ne dicono gli altri, magari ogni tanto incontrarla nel quartiere, ma tutto questo non basta. Si tratta di un conoscere direi ordinario, superficiale, che non riconosce l’unicità di quella persona. È un rischio che corriamo tutti: pensiamo di sapere tanto di una persona, e il peggio è che la etichettiamo e la rinchiudiamo nei nostri pregiudizi. Allo stesso modo, i compaesani di Gesù lo conoscono da trent’anni e pensano di sapere tutto! In realtà, non si sono mai accorti di chi è veramente Gesù. Si fermano all’esteriorità e rifiutano la novità di Gesù.
E qui entriamo proprio nel nocciolo del problema: quando facciamo prevalere /a comodità dell’abitudine e la dittatura dei pregiudizi, è difficile aprirsi alla novità e lasciarsi stupire. Noi controlliamo, con l’abitudine, con i pregiudizi. Finisce che spesso dalla vita, dalle esperienze e perfino dalle persone cerchiamo solo conferme alle nostre idee e ai nostri schemi, per non dover mai fare la fatica di cambiare. E questo può succedere anche con Dio, proprio a noi credenti, a noi che pensiamo di conoscere Gesù, di sapere già tanto di Lui e che ci basti ripetere le cose di sempre. E questo non basta con Dio. Ma senza apertura alla novità e soprattutto apertura alle sorprese di Dio, senza stupore, la fede diventa una litania stanca che lentamente si spegne e diventa un’abitudine. Cos’è, lo stupore? Lo stupore è proprio quando succede l’incontro con Dio. Leggiamo il Vangelo: tante volte, la gente che incontra Gesù e lo riconosce, sente lo stupore. E noi, con l’incontro con Dio, dobbiamo andare su questa via: sentire lo stupore. È come il certificato di garanzia che quell’incontro è vero.
Alla fine, perché i compaesani di Gesù non lo riconoscono e non credono in Lui? Perché? Possiamo dire che non accettano lo scandalo dell’incarnazione. Non lo conoscono, questo mistero dell’incarnazione. Non lo sanno, ma il motivo è inconsapevole e sentono che è scandaloso che l’immensità di Dio si riveli nella piccolezza della nostra carne, che il Figlio di Dio sia il figlio del falegname, che la divinità si nasconda nell’umanità, che Dio abiti nel volto, nelle parole, nei gesti di un semplice uomo. Ecco lo scandalo: l’incarnazione di Dio, la sua concretezza. E Dio si è fatto concreto in un uomo, Gesù di Nazaret, si è fatto compagno di strada, si è fatto uno di noi.
Ci piace credere a un dio “dagli effetti speciali”, che fa solo cose eccezionali e dà sempre grandi emozioni. Invece Dio si è incarnato: Dio è umile, Dio è tenero, Dio è nascosto, si fa vicino a noi abitando la normalità della nostra vita quotidiana. E allora, succede a noi come ai compaesani di Gesù, rischiamo che, quando passa, non lo riconosciamo. Pensiamo a com’è il nostro cuore rispetto a questa realtà. Lo incontriamo nella normalità: occhi aperti alle sorprese di Dio, alla Sua presenza umile e nascosta nella vita di ogni giorno.

XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Oggi nel Vangelo (cfr. Mc 5,21-43) Gesù si imbatte nelle nostre due situazioni più drammatiche, la morte e la malattia. Da esse libera due persone: una bambina, che muore proprio mentre il padre è andato a chiedere aiuto a Gesù, e una donna, che da molti anni ha perdite di sangue. Gesù si lascia toccare dal nostro dolore e dalla nostra morte, e opera due segni di guarigione per dirci che né il dolore né la morte hanno l’ultima parola. Ci dice che la morte non è la fine. Egli vince questo nemico dal quale non possiamo liberarci da soli.
Concentriamoci, però sulla guarigione della donna. Più che la sua salute, a essere compromessi erano i suoi affetti. Perché? Aveva perdite di sangue e perciò, secondo la mentalità di allora, era ritenuta impura. Era una donna emarginata, non poteva avere relazioni stabili, non poteva avere uno sposo, non poteva avere una famiglia e non poteva avere rapporti sociali normali perché era “impura”, una malattia che la rendeva “impura”. Viveva sola, con il cuore ferito. La malattia più grande della vita, qual è? Il cancro? La tubercolosi? La pandemia? No. La malattia più grande della vita è la mancanza di amore, è non riuscire ad amare. Questa povera donna era malata sì delle perdite di sangue, ma, per conseguenza, di mancanza di amore, perché non po­teva essere socialmente con gli altri. E la guarigione che più conta è quella degli affetti.
La storia di questa donna senza nome , nella quale possiamo vederci tutti, è esemplare. Il testo dice che aveva fatto molte cure, «spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (v. 26). Anche noi, quante volte ci buttiamo in rimedi sbagliati per saziare la nostra mancanza di amore? Pensiamo che a renderci felici siano il successo e i soldi, ma l’amore non si compra, è gratuito. Ci rifugiamo nel virtuale, ma l’amore è concreto. Non ci accettiamo così come siamo e ci nascondiamo dietro i trucchi dell’esteriorità, ma l’amore non è apparenza. Cerchiamo soluzioni da maghi, da santoni, per poi trovarci senza soldi e senza pace, come quella donna. Lei, finalmente, sceglie Gesù e si butta tra la folla per toccare il mantello, il mantello di Gesù. Quella donna, cioè, cerca il contatto diretto, il contatto fisico con Gesù. Soprattutto in questo tempo, abbiamo capito quanto siano importanti il contatto, le relazioni. Lo stesso vale con Gesù: a volte ci accontentiamo di osservare qualche precetto e di ripetere preghiere, ma il Signore attende che lo incontriamo, che gli apriamo il cuore, che, come la donna, tocchiamo il suo mantello per guarire. Perché, entrando in intimità con Gesù, veniamo guariti nei nostri affetti.
Questo vuole Gesù. Leggiamo infatti che, pur stretto dalla folla, si guarda attorno per cercare chi lo ha toccato. È lo sguardo di Gesù: c’è tanta gente, ma Lui va in cerca di un volto e di un cuore pieno di fede. Gesù non guarda all’insieme, come noi, ma guarda alla persona. Non si arresta di fronte alle ferite e agli errori del passato, ma va oltre i peccati e i pregiudizi. Tutti noi abbiamo una storia, e ognuno di noi, nel suo segreto, conosce bene le cose brutte della propria storia. Ma Gesù le guarda per guarirle. Invece a noi ci piace guardare le cose brutte degli altri. Quante volte, quando noi parliamo, cadiamo nel chiacchiericcio, che è sparlare degli altri, “spellare” gli altri.
Ma guarda: che orizzonte di vita è questo? Non come Gesù, che sempre guarda il modo di salvarci, guarda l’oggi, la buona volontà e non la storia brutta che noi abbiamo. Gesù va oltre i peccati. Gesù va oltre i pregiudizi, non si ferma alle apparenze, arriva al cuore Gesù. E guarisce proprio lei, che era scartata da tutti, un’impura.
Sorella, fratello, sei qui, lascia che Gesù guardi e guarisca il tuo cuore. Anch’io devo fare questo: lasciare che Gesù guardi il mio cuore e lo guarisca. E se hai già provato il suo sguardo tenero su di te, imitalo, e fai come Lui. Guardati attorno: vedrai che tante persone che ti vivono accanto si sentono ferite e sole, hanno bisogno di sentirsi amate: fai il passo. Gesù ti chiede uno sguardo che non si fermi all’esteriorità, ma vada al cuore; uno sguardo non giudicante — finiamo di giudicare gli altri — Gesù ci chiede uno sguardo non giudicante, ma accogliente. Apriamo il nostro cuore per accogliere gli altri. Perché solo l’amore risana la vita, solo l’amore risana la vita. E non giudicare, non giudicare la realtà personale, sociale, degli altri. Dio ama tutti! Non giudicare, lasciate vivere gli altri e cercate di avvicinarvi con amore.

 

XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Bisognosi di Dio
Nella liturgia di oggi si narra l’episodio della tempesta sedata da Gesù (cfr. Mc 4,35-41). La barca su cui i discepoli attraversano il lago è assalita dal vento e dalle onde ed essi temono di affondare. Gesù è con loro sulla barca, eppure se ne sta a poppa sul cuscino e dorme. I discepoli, pieni di paura, gli urlano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38).
E tante volte anche noi, assaliti dalle prove della vita, abbiamo gridato al Signore: «Perché resti in silenzio e non fai nulla per me?». Soprattutto quando ci sembra di affondare, perché l’amore o il progetto nel quale avevamo riposto grandi speranze svanisce; o quando siamo in balia delle onde insistenti dell’ansia; oppure quando ci sentiamo sommersi dai problemi o persi in mezzo al mare della vita, senza rotta e senza porto. O ancora, nei momenti in cui viene meno la forza di andare avanti, perché manca il lavoro, oppure una diagnosi inaspettata ci fa temere per la salute nostra o di una persona cara. Sono tanti i momenti nei quali ci sentiamo in una tempesta, ci sentiamo quasi finiti.
In queste situazioni e in tante altre, anche noi ci sentiamo soffocare dalla paura e, come i discepoli, rischiamo di perdere di vista la cosa più importante. Sulla barca, infatti, anche se dorme, Gesù c’è, e condivide con i suoi tutto quello che sta succedendo. Il suo sonno, se da una parte ci stupisce, dall’altra ci mette alla prova. Il Signore è lì, presente; infatti, attende — per così dire — che siamo noi a coinvolgerlo, a invocarlo, a metterlo al centro di quello che viviamo. Il suo sonno provoca noi a svegliarci. Perché, per essere discepoli di Gesù, non basta credere che Dio c’è, che esiste, ma bisogna mettersi in gioco con Lui, bisogna anche alzare la voce con Lui. Sentite questo: bisogna gridare a Lui. La preghiera, tante volte, è un grido: «Signore, salvami!». Stavo vedendo, nel programma “A Sua immagine”, oggi, Giorno del Rifugiato, tanti che vengono in barconi e nel momento di annegare gridano: «Salvaci!». Anche nella nostra vita succede lo stesso: «Signore, salvaci!», e la preghiera diventa un grido.
Oggi possiamo chiederci: quali sono i venti che si abbattono sulla mia vita, quali sono le onde che ostacolano la mia navigazione e mettono in pericolo la mia vita spirituale, la mia vita di famiglia, la mia vita psichica pure? Diciamo tutto questo a Gesù, raccontiamogli tutto. Egli lo desidera, vuole che ci aggrappiamo a Lui per trovare riparo contro le onde anomale della vita.
Il Vangelo racconta che i discepoli si avvicinano a Gesù, lo svegliano e gli parlano (cfr. v. 38). Ecco l’inizio della nostra fede: riconoscere che da soli non siamo in grado di stare a galla, che abbiamo bisogno di Gesù come i marinai delle stelle per trovare la rotta. La fede comincia dal credere che non bastiamo a noi stessi, dal sentirci bisognosi di Dio. Quando vinciamo la tentazione di rinchiuderci in noi stessi, quando superiamo la falsa religiosità che non vuole scomodare Dio, quando gridiamo a Lui, Egli può operare in noi meraviglie.
È la forza mite e straordinaria della preghiera, che opera miracoli.
Gesù, pregato dai discepoli, calma il vento e le onde. E pone loro una domanda, una domanda che riguarda anche noi: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). I discepoli si erano fatti catturare dalla paura, perché erano rimasti a fissare le onde più che a guardare a Gesù. E la paura ci porta a guardare le difficoltà, i problemi brutti e non a guardare il Signore, che tante volte dorme. Anche per noi è così: quante volte restiamo a fissare i problemi anziché andare dal Signore e gettare in Lui i nostri affanni! Quante volte lasciamo il Signore in un an­golo, in fondo alla barca della vita, per svegliarlo solo nel momento del bisogno! Chiediamo oggi la grazia di una fede che non si stanca di cercare il Signore, di bussare alla porta del suo Cuore.
La Vergine Maria, che nella sua vita non ha mai smesso di confidare in Dio, ridesti in noi il bisogno vitale di affidarci a Lui ogni giorno.

Papa Francesco