Gesù Cristo Re dell’universo

La logica del servizio umile e generoso
Oggi celebriamo la solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, con la quale si chiude l’anno liturgico, la gran­de parabola in cui si dispiega il mistero di Cristo: tutto l’anno liturgico. Egli è l’Alfa e l’Omega, l’inizio e il compimento della storia; e la liturgia odierna si concentra sull’”omega”, cioè sul traguardo finale. Il senso della storia lo si capisce te­nendo davanti agli occhi il suo culmine: la fine è anche il fine. Ed è proprio questo che fa Matteo, nel Vangelo di questa domenica (vv. 25,31-46), ponendo il discorso di Gesù sul giudizio universale all’epilogo della sua vita terrena: Lui, che gli uomini stanno per condannare, è in realtà il supremo giudice. Nella sua morte e risurrezione, Gesù si mostrerà il Signore della storia, il Re dell’universo, il Giudice di tutti. Ma il paradosso cristiano è che il Giudice non riveste una regalità temibile, ma è un pastore pieno di mitezza e di misericordia.  Gesù, si identifica anche con le pecore, cioè con i fratelli più piccoli e bisognosi. E indica così il criterio del giudizio: esso sarà preso in base all’amore concreto dato o negato a queste persone, perché Lui stesso, il giudice, è presente in ciascuna di esse. Lui è giudice, Lui è Dio-uomo, ma Lui è anche il povero, Lui è nascosto, è presente nella persona dei poveri che Lui menziona proprio li. Dice Gesù: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto (o non avete fatto) a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete (o non l’avete) fatto a me» (vv. 40.45). Saremo giudicati sull’amore. Il giudizio sarà sull’amore. Non sul sentimento, no: saremo giudicati sulle opere, sulla compassione che si fa vicinanza e aiuto premuroso.
Io mi avvicino a Gesù presente nella persona dei malati, dei poveri, dei sofferenti, dei carcerati, di coloro che hanno fame e sete di giustizia?
Dunque, il Signore, alla fine del mondo, ci chiederà: «Sei stato un po’ pastore come me?». Sei stato pastore di me che ero presente in questa gente che era nel bisogno, o sei stato indifferente?». Fratelli e sorelle, guardiamoci dalla logica dell’indifferenza, di quello che ci viene in mente subito: guardare da un’altra parte quando vediamo un problema. Ricordiamo la parabola del buon samaritano. Quel povero uomo, ferito dai briganti, buttato per terra, fra la vita e la morte, era lì solo. Passò un sacerdote, vide, e se ne andò, guardò da un’altra parte. Passò un levita, vide e guardò da un’altra parte. Io, davanti ai miei fratelli e sorelle nel bisogno, sono indifferente come questo sacerdote, come questo levita, e guardo da un’altra parte? Sarò giudicato su questo: su come mi sono avvicinato, di come ho guardato Gesù presente nei bisognosi. Questa è la logica, e non lo dico io, lo dice Gesù: «Quello che avete fatto a questo, a questo, a questo, lo avete fatto a me. E quello che non avete fatto a questo, a questo, a questo, non lo avete fatto a me, perché io ero lì». Che Gesù ci insegni questa logica, questa logica della prossimità, dell’avvicinarsi a Lui, con amore, nella persona dei più sofferenti.
Chiediamo alla Vergine Maria di insegnarci a regnare nel servire. La Madonna, assunta in cielo, ha ricevuto dal suo Figlio la corona regale, perché lo ha seguito fedelmente nella via dell’amore. Impariamo da lei a entrare fin da ora nel regno di Dio, attraverso la porta del servizio umile e generoso.                                                        Papa Francesco

XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Tendi la tua mano al povero

In questa penultima domenica dell’anno liturgico, il Vangelo ci presenta la celebre parabola dei talenti (cfr Mt 25,14-30). Fa parte del discorso di Gesù sugli ul­timi tempi, che precede immediatamente la sua passione, morte e risurrezione. La parabola racconta di un ricco si­gnore che deve partire e, prevedendo una lunga assenza, affida i suoi beni a tre dei suoi servi: al primo affida cinque talenti, al secondo due, al terzo uno. Gesù specifica che la distribuzione è fatta «secondo le capacità di ciascuno» (v. 15). Così fa il Signore con tutti noi: ci conosce bene, sa che non siamo uguali e non vuole privilegiare nessuno a scapito degli altri, ma affida a ciascuno un capitale com­misurato alle capacità.
Durante l’assenza del padrone, i primi due servi si dan­no molto da fare, sino al punto di raddoppiare la somma loro affidata. Non così il terzo servo, il quale nasconde il talento in una buca: per evitare rischi, lo lascia lì, al riparo dai ladri, ma senza farlo fruttare. Arriva il momento del ri­torno del padrone, il quale chiama i servi al rendiconto. I primi due presentano il buon frutto del loro impegno, hanno lavorato e il padrone li loda, li ricompensa e li invita a partecipare alla sua festa, alla sua gioia. Il terzo, invece, accorgendosi di essere in difetto, comincia subito a giustificarsi, dicendo: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai spar­so. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (vv. 24-25). Si difende della sua pigrizia accusando il padrone di essere “duro”. Questa è un’abitudine che anche noi abbiamo: ci difendia­mo, tante volte, accusando gli altri. Ma loro non hanno colpa: la colpa è nostra, il difetto è nostro. E questo servo accusa gli altri, accusa il padrone per giustificarsi. Anche noi, tante volte, facciamo lo stesso. Allora il padrone lo rimprovera: lo chiama servo «malvagio e pigro» (v. 26); gli fa togliere il talento e lo fa gettare fuori dalla sua casa.
Questa parabola vale per tutti ma, come sempre, in particolare per i cristiani. Anche oggi ha tanta attualità: oggi, che è la Giornata dei poveri, dove la Chiesa dice a noi cristiani: «Tendi la mano al povero. Tendi la tua mano al povero. Non sei solo nella vita: c’è gente che ha bisogno di te. Non essere egoista, tendi la mano al povero». Tutti abbiamo ricevuto da Dio un “patrimonio” come esseri umani, una ricchezza umana, qualunque sia. E come di­scepoli di Cristo abbiamo ricevuto anche la fede, il Vangelo, lo Spirito Santo, i sacramenti e tante altre cose. Questi doni bisogna utilizzarli per operare il bene, per operare il bene in questa vita, come servizio a Dio e ai fratelli. E oggi la Chiesa ti dice, ci dice: «Utilizza quello che ti ha dato Dio e guarda i poveri. Guarda: ce ne sono tanti; anche nelle nostre città, nel centro della nostra città, sono tanti. Fate il bene!». Noi, a volte, pensiamo che essere cristiani sia non fare del male. E non fare del male è buono. Ma non fare del bene, non è buono. Noi dobbiamo fare del bene, uscire da noi stessi e guardare, guardare coloro che hanno più bisogno. C’è tanta fame, anche nel cuore delle nostre città, e tante volte noi entriamo in quella logica dell’indifferenza: il povero è lì, e guardiamo da un’altra parte. Tendi la tua mano al povero: è Cristo. Alcuni dicono: «Ma questi preti, questi vescovi che parlano dei poveri, dei poveri… Noi vogliamo che ci parlino della vita eterna!». Guarda, fratello e sorella, i poveri sono al centro del Vangelo; è Gesù che ci ha insegnato a parlare ai poveri, è Gesù che è venuto per i poveri. Tendi la tua mano al povero. Hai ricevuto tante cose, e tu lasci che tuo fratello, tua sorella muoia di fame? Cari fratelli e sorelle, ognuno dica nel suo cuore questo che Gesù ci dice oggi, ripeta nel suo cuore: «Tendi la tua mano al povero». E ci dice un’altra cosa, Gesù: «Sai, il povero sono io». Gesù ci dice questo: «Il povero sono io».
La Vergine Maria ha ricevuto un grande dono: Gesù stesso, ma non l’ha tenuto per sé, io ha dato al mondo, al suo popolo. Impariamo da lei a tendere la mano ai poveri.

XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

La lampada della fede brilla con l’olio della carità

Il brano del Vangelo di questa domenica (Mt 25,1-13) ci invita a prolungare la riflessione sulla vita eterna, iniziata in occasione della festa di tutti i Santi e della commemorazione dei Fedeli defunti. Gesù narra la parabola delle dieci vergini invitate a una festa nuziale, simbolo del regno dei cieli.
Ai tempi di Gesù c’era la consuetudine che le nozze si celebrassero di notte; pertanto il corteo degli invitati doveva procedere con le lampade accese. Alcune damigelle sono stolte: prendono le lampade ma non prendono con sé l’olio; quelle sagge, invece, assieme alle lampade prendono anche dell’olio. Lo sposo tarda a venire, e tutte si assopiscono. Quando una voce avverte che lo sposo sta per arrivare, le stolte, in quel momento, si accorgono di non avere olio per le loro lampade; lo chiedono alle sagge, ma queste rispondono che non possono darlo, perché non basterebbe per tutte. Mentre le stolte vanno a comprare l’olio, arriva lo sposo. Le ragazze sagge entrano con lui nella sala del banchetto, e la porta viene chiusa. Le altre arrivano troppo tardi e vengono respinte.
È chiaro che con questa parabola Gesù ci vuole dire che dobbiamo essere preparati all’incontro con Lui. Non solo all’incontro finale, ma anche ai piccoli e grandi in­contri di ogni giorno in vista di quell’incontro, per il quale non basta la lampada della fede, occorre anche l’olio della carità e delle opere buone. La fede che ci unisce veramente a Gesù è quella, come dice l’apostolo Paolo, «che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal5,6). È ciò che viene rappresentato dall’atteggiamento delle ragazze sagge.
Essere saggi e prudenti significa non aspettare l’ultimo mo­mento per corrispondere alla grazia di Dio, ma farlo attivamente da subito, cominciare da adesso. «Io… sì, poi più avanti mi convertirò…» — «Convertiti oggi! Cambia vita oggi!» — «Sì, sì… domani». E lo stesso dice domani, e così mai arriverà. Oggi! Se vogliamo essere pronti per l’ul­timo incontro con il Signore, dobbiamo sin d’ora coope­rare con Lui e compiere azioni buone ispirate al suo amore.
Dobbiamo vivere l’oggi, ma l’oggi che va verso il domani, verso quell’incontro, l’oggi carico di speranza. Se invece siamo vigilanti e facciamo il bene corrispondendo alla grazia di Dio, possiamo atten­dere con serenità l’arrivo dello sposo. Il Signore potrà ve­nire anche mentre dormiamo: questo non ci preoccuperà, perché abbiamo la riserva di olio accumulata con le opere buone di ogni giorno, accumulata con quell’attesa del Signore, che Lui venga il più presto possibile e che venga a portarmi con Lui.
Invochiamo l’intercessione di Maria Santissima, per­ché ci aiuti a vivere, come ha fatto Lei, una fede operosa: essa è la lampada luminosa con cui possiamo attraversare la notte oltre la morte e giungere alla grande festa della vita.

Papa Francesco

 

XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Il Vangelo di oggi (cfr Mt 23,1-12) è ambientato negli ultimi giorni della vita di Gesù, a Gerusalemme; giorni ca­richi di aspettative e anche di tensioni. Da una parte Gesù rivolge critiche severe agli scribi e ai farisei, dall’altra lascia importanti consegne ai cristiani di tutti i tempi, quindi anche a noi.
Egli dice alla folla: «Sulla cattedra di Mosè si sono se­duti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che dicono». Questo sta a significare che essi hanno l’autorità di insegnare ciò che è conforme alla Legge di Dio. Tutta­via, subito dopo, Gesù aggiunge: «…ma non agite secon­do le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (vv. 2-3).
Fratelli e sorelle, un difetto frequente in quanti hanno un’autorità, sia autorità civile sia ecclesiastica, è quello di esigere dagli altri cose, anche giuste, che però loro non mettono in pratica in prima persona. Fanno la doppia vita. Dice Gesù: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito» (v. 4). Questo at­teggiamento è un cattivo esercizio dell’autorità, che invece dovrebbe avere la sua prima forza proprio dal buon esem­pio. L’autorità nasce dal buon esempio, per aiutare gli altri a praticare ciò che è giusto e doveroso, sostenendoli nelle prove che si incontrano sulla via del bene. L’autorità è un aiuto, ma se viene esercitata male, diventa oppressiva, non lascia crescere le persone e crea un clima di sfiducia e di ostilità, e porta anche alla corruzione. Gesù denuncia apertamente alcuni comportamenti negativi degli scribi e di alcuni farisei: «Si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sina­goghe, dei saluti nelle piazze» (vv. 6-7). Questa è una ten­tazione che corrisponde alla superbia umana e che non è sempre facile vincere. È l’atteggiamento del vivere solo per l’apparenza.
Poi Gesù dà le consegne ai suoi discepoli: «Non fatevi chia­mare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. […] E non fatevi chiamare “guide”, per­ché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo» (vv. 8-11).
Noi discepoli di Gesù non dobbiamo cercare titoli di onore, di autorità o di supremazia. Io vi dico che a me personalmente addolora vedere persone che psicologica­mente vivono correndo dietro alla vanità delle onorificen­ze. Noi, discepoli di Gesù, non dobbiamo fare questo, poiché tra di noi ci dev’essere un atteggiamento semplice e fraterno. Siamo tutti fratelli e non dobbiamo in nessun modo sopraffare gli altri e guardarli dall’alto in basso. No. Siamo tutti fratelli. Se abbiamo ricevuto delle qualità dal Padre celeste, le dobbiamo mettere al servizio dei fratelli, e non approfittarne per la nostra soddisfazione e interesse personale. Non dobbiamo considerarci superiori agli altri; la modestia è essenziale per un’esistenza che vuole essere conforme all’insegnamento di Gesù, il quale è mite e umile di cuore ed è venuto non per essere servito ma per servire.

Papa Francesco

 

RIFLESISONE DEL PARROCO

Siamo vicini alla festa di Tutti i santi e della Commemorazione dei fedeli defunti, vi ricordo le condizioni per ricevere l’indulgenza plenaria per i defunti.

INDULGENZA PLENARIA DEI DEFUNTI
I peccati non solo distruggono o feriscono la comunione con Dio e ci esclu­dono dalla vita eterna, ma compromettono anche l’equilibrio interiore della persona e il suo ordinato rapporto con le creature. Per un risanamento totale, oltre al pentimento e alla remissione della colpa mediante il sacramento della Confessione, occorre riparare il disordine provocato, per cui il peccato deve essere espiato (pena) o sulla terra con preghiere, penitenze e opere di pietà volontarie o in Purgatorio. L’indulgenza plenaria è uno dei mezzi per ottenere la remissione di tutta la pena.
Condizioni per ottenere l’indulgenza plenaria
Si concede l’indulgenza plenaria, applicabile soltanto alle anime dei defunti, al fedele che, escludendo qualsiasi affetto al peccato anche veniale, compie le seguenti opere:
1. Da mezzogiorno del 1° a tutto il 2 novembre visita una chiesa o un oratorio e vi recita:
– il Credo (per riaffermare la propria identità cristiana);
– un Padre nostro (per riaffermare la propria identità di figlio di Dio ricevuta nel Battesimo);
2. Nei singoli giorni dal l° all’8 novembre devotamente visita il cimitero e prega, anche solo mentalmente, per i defunti.
E inoltre adempia le seguenti tre condizioni generali:
– Accostarsi al sacramento della Riconciliazione. Con una Confessione si possono acquistare più indulgenze plenarie.
– Ricevere la Comunione eucaristica. Con una Comunione si può acquistare una sola indulgenza plenaria. È meglio ricevere la Comunione partecipan­do alla santa Messa.
– Pregare secondo le intenzioni del Santo Padre, per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Papa (Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre o altra preghiera a scelta del fedele). Con una sola preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice si può acquisire una sola indulgenza plenaria.
Le condizioni dei punti a, b e c possono essere adempiute anche parecchi giorni prima o dopo aver compiuto l’opera prescritta ai numeri 1 e 2; tuttavia è conveniente che la Comunione e la preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice siano fatte nello stesso giorno in cui si compie l’opera.

Don Gabriel

 

RIFLESISONE DEL PARROCO

Il Vangelo di questa domenica (cfr Mt 22,15-21) ci mostra Gesù alle prese con l’ipocrisia dei suoi avversari. Essi gli fanno tanti complimenti — all’inizio, tanti compli­menti — ma poi pongono una domanda insidiosa per met­terlo in difficoltà e screditarlo davanti al popolo. Gli chiedono: «È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (v. 17), cioè pagare le tasse a Cesare. A quel tempo, in Pa­lestina, la dominazione dell’impero romano era mal tolle­rata — e si capisce, erano degli invasori — anche per motivi religiosi. Per la popolazione, il culto dell’imperatore, sot­tolineato anche dalla sua immagine sulle monete, era un’ingiuria al Dio d’Israele. Gli interlocutori di Gesù sono convinti che non ci sia un’alternativa alla loro interroga­zione: o un “sì” o un “no”. Stavano aspettando, proprio perché con questa domanda erano sicuri di mettere Gesù all’angolo e farlo cadere nel tranello. Ma Egli conosce la loro malizia e si svincola dal trabocchetto. Chiede loro di mostrargli la moneta, la moneta delle tasse, del tributo, la prende tra le mani e domanda di chi sia l’immagine im­pressa. Quelli rispondono che è di Cesare, cioè dell’impe­ratore. Allora Gesù replica: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (v. 21).
Con questa risposta, Gesù si pone al di sopra della polemica. Gesù è sempre al di sopra. Da una parte, riconosce che il tributo a Cesare va pagato — anche per tutti noi, le tasse vanno pagate — perché l’immagine sulla moneta è la sua; ma soprattutto ricorda che ogni persona porta in sé un’altra immagine — la portiamo nel cuore, nell’anima —: quella di Dio, e pertanto è a Lui, e a Lui solo, che ognuno è debitore della propria esistenza, della propria vita.
In questa sentenza di Gesù si trova non solo il criterio della distinzione tra sfera politica e sfera religiosa, ma emergono chiari orientamenti per la missione dei credenti di tutti i tempi, anche per noi oggi. Pagare le tasse è un dovere dei cittadini, come anche l’osservanza delle leggi giuste dello Stato. Al tempo stesso, è necessario affermare il primato di Dio nella vita umana e nella storia, rispettan­do il diritto di Dio su ciò che gli appartiene.
Da qui deriva la missione della Chiesa e dei cristiani: parlare di Dio e testimoniarlo agli uomini e alle donne del proprio tempo. Ognuno di noi, per il battesimo, è chiamato ad essere presenza viva nella società, animandola con il Vangelo e con la linfa vitale dello Spirito Santo. Si tratta di impegnarsi con umiltà, e al tempo stesso con coraggio, por­tando il proprio contributo all’edificazione della civiltà del­l’amore, dove regnano la giustizia e la fraternità.
Maria Santissima aiuti tutti a fuggire ogni ipocrisia e ad essere cittadini onesti e costruttivi. E sostenga noi discepoli di Cristo nella missione di testimoniare che Dio è il centro e il senso della vita.

   Papa Francesco

 

RIFLESSIONE DEL PARROCO

BREVE COMMENTO AL VANGELO DELLA DOMENICA

L’importanza dell’abito nuziale

Gesù ci presenta la parabola dell’abito nuziale. A una festa di matrimonio la gente andava come era vestita, come poteva essere vestita, non indossava abiti di gala. Ma all’entrata veniva loro data una specie di mantellina, un regalo. Quel tale, avendo rifiutato il dono gratuito, si è autoescluso: così il re non può fare al­tro che gettarlo fuori.

Quest’uomo ha accolto l’invito, ma poi ha deciso che esso non significava nulla per lui: era una persona autosufficiente, non aveva alcun desiderio di cam­biare o di lasciare che il Signore lo cambiasse. L’abito nu­ziale — questa mantellina — simboleggia la misericordia che Dio ci dona gratuitamente, cioè la grazia. Senza grazia non si può fare un passo avanti nella vita cristiana. Tutto è gra­zia. Non basta accettare l’invito a seguire il Signore, occorre essere disponibili a un cammino di conversione, che cambia il cuore. L’abito della misericordia, che Dio ci offre inces­santemente, è un dono gratuito del suo amore, è proprio la grazia. E richiede di essere accolto con stupore e con gioia: «Grazie, Signore, per avermi dato questo dono».

  Papa Francesco

RIFLESSIONE DEL PARROCO

VII. LA TRINITÀ E LA RELAZIONE TRA LE CREATURE
Il Padre è la fonte ultima di tutto, fondamento amoroso e comunicativo di quanto esiste. Il Figlio, che lo riflette, e per mezzo del quale tutto è stato creato, si unì a questa terra quando prese forma nel seno di Maria. Lo Spirito, vincolo infinito d’amore, è intimamente presente nel cuore dell’universo animando e suscitando nuovi cammini. Il mondo è stato creato dalle tre Persone come unico principio divino, ma ognuna di loro realizza questa opera comune secondo la propria identità personale. Per questo, quando contempliamo con ammirazione l’universo nella sua grandezza e bellezza, dobbiamo lodare tutta la Trinità.
Per i cristiani, credere in un Dio unico che è comunione trinitaria porta a pensare che tutta la realtà contiene in sé un’impronta propriamente trinitaria.
Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente. Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità.
VIII. LA REGINA DI TUTTO IL CREATO
Maria, la madre che ebbe cura di Gesù, ora si prende cura con affetto e dolore materno di questo mondo ferito. Così come pianse con il cuore trafitto la morte di Gesù, ora ha compassione della sofferenza dei poveri crocifissi e delle creature di questo mondo sterminate dal potere umano. Ella vive con Gesù completamente trasfigurata, e tutte le creature cantano la sua bellezza. È la Donna «vestita di sole, con la luna sotto i piedi e una corona di dodici stelle sul suo capo» (Ap 12,1). Elevata al cielo, è Madre e Regina di tutto il creato. Nel suo corpo glorificato, insieme a Cristo risorto, parte della creazione ha raggiunto tutta la pienezza della sua bellezza. Lei non solo conserva nel suo cuore tutta la vita di Gesù, che «custodiva» con cura (cfr Lc 2,19.51), ma ora anche comprende il senso di tutte le cose. Perciò possiamo chiederle che ci aiuti a guardare questo mondo con occhi più sapienti.
Insieme a lei, nella santa famiglia di Nazaret, risalta la figura di san Giuseppe. Egli ebbe cura e difese Maria e Gesù con il suo lavoro e la sua presenza generosa, e li liberò dalla violenza degli ingiusti portandoli in Egitto. Nel Vangelo appare come un uomo giusto, lavoratore, forte. Ma dalla sua figura emerge anche una grande tenerezza, che non è propria di chi è debole ma di chi è veramente forte, attento alla realtà per amare e servire umilmente. Per questo è stato dichiarato custode della Chiesa universale.
IX. AL DI LÀ DEL SOLE
Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (cfr 1 Cor 13,12) e potremo leggere con gioiosa ammirazione il mistero dell’universo, che parteciperà insieme a noi della pienezza senza fine. La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati.
Nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo.
Dio, che ci chiama alla dedizione generosa e a dare tutto, ci offre le forze e la luce di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Nel cuore di questo mondo rimane sempre presente il Signore della vita che ci ama tanto. Egli non ci abbandona, non ci lascia soli, perché si è unito definitivamente con la nostra terra, e il suo amore ci conduce sempre a trovare nuove strade. A Lui sia lode!

RIFLESSIONE DEL PARROCO

VI. I SEGNI SACRAMENTALI E IL RIPOSO CELEBRATIVO
L’universo si sviluppa in Dio, che lo riempie tutto. Quindi c’è un mistero da contemplare in una foglia, in un sentiero, nella rugiada, nel volto di un povero. L’ideale non è solo passare dall’esteriorità all’interiorità per scoprire l’azione di Dio nell’anima, ma anche arrivare a incontrarlo in tutte le cose.
I Sacramenti sono un modo privilegiato in cui la natura viene assunta da Dio e trasformata in mediazione della vita soprannaturale. Attraverso il culto siamo invitati ad abbracciare il mondo su un piano diverso. L’acqua, l’olio, il fuoco e i colori sono assunti con tutta la loro forza simbolica e si incorporano nella lode. La mano che benedice è strumento dell’amore di Dio e riflesso della vicinanza di Cristo che è venuto ad accompagnarci nel cammino della vita. L’acqua che si versa sul corpo del bambino che viene battezzato è segno di vita nuova. Non fuggiamo dal mondo né neghiamo la natura quando vogliamo incontrarci con Dio.
Per l’esperienza cristiana, tutte le creature dell’universo materiale trovano il loro vero senso nel Verbo incarnato, perché il Figlio di Dio ha incorporato nella sua persona parte dell’universo materiale, dove ha introdotto un germe di trasformazione definitiva: Il Cristianesimo non rifiuta la materia, la corporeità; al contrario, la valorizza pienamente nell’atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra la propria natura intima di tempio dello Spirito e arriva a unirsi al Signore Gesù, anche Lui fatto corpo per la salvezza del mondo.
Nell’Eucaristia il creato trova la sua maggiore elevazione. La grazia, che tende a manifestarsi in modo sensibile, raggiunge un’espressione meravigliosa quando Dio stesso, fatto uomo, arriva a farsi mangiare dalla sua creatura. Il Signore, al culmine del mistero dell’Incarnazione, volle raggiungere la nostra intimità attraverso un frammento di materia. Non dall’alto, ma da dentro, affinché nel nostro stesso mondo potessimo incontrare Lui. Nell’Eucaristia è già realizzata la pienezza, ed è il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile. Unito al Figlio incarnato, presente nell’Eucaristia, tutto il cosmo rende grazie a Dio. L’Eucaristia unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato. Il mondo, che è uscito dalle mani di Dio, ritorna a Lui in gioiosa e piena adorazione: nel Pane eucaristico la creazione è protesa verso la divinizzazione, verso le sante nozze, verso l’unificazione con il Creatore stesso. Perciò l’Eucaristia è anche fonte di luce e di motivazione per le nostre preoccupazioni per l’ambiente, e ci orienta ad essere custodi di tutto il creato.
La domenica, la partecipazione all’Eucaristia ha un’importanza particolare. Questo giorno si offre quale giorno del risanamento delle relazioni dell’essere umano con Dio, con sé stessi, con gli altri e con il mondo. La domenica è il giorno della Risurrezione, il “primo giorno” della nuova creazione, la cui primizia è l’umanità risorta del Signore, garanzia della trasfigurazione finale di tutta la realtà creata.

RIFLESSIONE DEL PARROCO

V. AMORE CIVILE E POLITICO
Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente.
Non tutti sono chiamati a lavorare in maniera diretta nella politica, ma in seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale. Così una comunità si libera dall’indifferenza consumistica. Questo vuol dire anche coltivare un’identità comune, una storia che si conserva e si trasmette. In tal modo ci si prende cura del mondo e della qualità della vita dei più poveri, con un senso di solidarietà che è allo stesso tempo consapevolezza di abitare una casa comune che Dio ci ha affidato. Queste azioni comunitarie, quando esprimono un amore che si dona, possono trasformarsi in intense esperienze spirituali.